Quando si ascolta “Demon Box“, più che le singole tracce a colpire sopra ogni altra cosa è il suono complessivo del disco. Un crogiuolo musicale che sa essere delicatissimo (l’indie folk aggraziato di “Waiting For The One”), urlato e quasi punk (il canto scriteriato di “Babylon”), pesante e anthemico (l’inno “Nothing To Say”, uno dei brani più famosi), parallelo all’heavy metal e al grunge allo stesso tempo (la feroce “Feedtime”), infine totalmente fuori dalle righe e da ogni catalogazione possibile (i 17 minuti della title – track, fra psichedelia oscura e schiume rumoriste). La grandezza dei norvegesi Motorpsycho è proprio questa: saper fondere con noncuranza una miriade di stili differenti, che passano dalle ‘suite’ del prog dei Seventies al riffing dell’hard rock coevo, in una sorta di ‘non – genere’ che prima appare quasi monocorde nella sua potenza simile a quella di un cataclisma naturale, ma che in un secondo momento si apre alle più diverse ipotesi d’ascolto. La band di Trondheim, città non molto distante dal Circolo Polare Artico, considera i dischi come se rappresentassero epopee di carattere sia individuale sia universale: così è “Demon Box”, così sarà il successivo e non meno fondamentale “Timothy’s Monster“, addirittura doppio, e simile impianto avranno quasi tutte le opere successive, almeno le migliori. Un complesso forse un po’ troppo auto celebrativo, ma dalla creatività sconfinata.
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