Rush – Clockwork Angels

Il nuovo Rush è tanta roba. Tanta roba da mettersi le mani nei capelli e non sapere neanche da che parte incominciare. E’ multidimensionale, è stratificato, è coinvolgente. Alex Lifeson fa un 180° rispetto al precedente “Snakes And Arrows” (2007), abbandonando la chitarra acustica, riprendendo l’elettrica e andando giù di riffazzi. L’approccio dell’intera band è  molto più orientato al suono da power trio, più live, più caldo. Siamo ovviamente nel sound rock dei Rush anni ’90, ma il modo di suonare tributa se stesso e tutta la produzione passando dai riff grassi ai fill delicati, passando pure per momenti hendrixiani o jazzati che ricordano gli  assoli sgangherati (in senso buono, ovviamente) de “La Villa Strangiato”, tanto per dire. Geddy Lee è sempre Geddy. Ulula come suo solito, raccontandoci questo coinvolgente  concept steampunk simile al classico “2112” (1976), dove il giovane  protagonista si ribella al mondo di plastica in cui vive. Il basso sferraglia clamoroso con le ritmiche che solo lui sa fare, forse meno pulito e funkettoso rispetto al passato ma, adeguandosi al  tiro del sound attuale, è in grado di sbrodolare groove da tutti i pori. Neil Peart, ancora una volta, vince. “The Professor”, alla sua veneranda età, è tuttora in grado di reinventarsi, mettersi in gioco, stupire. A questo giro niente arrangiamenti elaborati, niente  pianificazioni a tavolino e analisi estenuanti. Neil ha ascoltato le demo dei  pezzi un paio di volte, giusto per avere un’idea, e poi giù di improvvisazione totale. Poche prove, tanta immediatezza. Poche storie, questo è il disco dei Rush più pesante da parecchio tempo.

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