Il talento bizzarro ed eterodosso di Mark Oliver Everett (in arte E) e delle sue Anguille (in realtà Eels è più una one man band che un gruppo vero e proprio) aveva già avuto modo di manifestarsi compiutamente nel precedente “Beautiful Freak” (1996). Eppure “Electro-Shock Blues” rimane l’opera più commovente di E, in grado di raggiungere livelli d’intensità raramente toccati dall’alt rock coevo. Il disco nasce come terapia per l’artista, ai tempi colpito da due tragedie familiari, il suicidio della sorella Elizabeth e il cancro terminale della madre. Mark Oliver, figlio del geniale e altrettanto eterodosso fisico quantistico Hugh Everett III, primo teorico del Multiverso, elabora il lutto con uno humour nero del tutto particolare, che in più di un’occasione mette i brividi. Brani come “Cancer For The Cure”, “Dead Of Winter”, “My Descent Into Madness”, “Hospital Food”, “The Medication Is Wearing Off”, “Climbing To The Moon” e “Elizabeth On The Bathroom Floor” (con i versi “My name’s Elizabeth/My life is shit and piss”) non possono lasciare indifferenti. Sono toccanti, nel senso letterale del termine; ti coinvolgono in prima persona in riflessioni sul dolore della perdita, sulla malattia e sulla morte che possono portare ad angosce e stati d’animo terribili. In tutto questo la musica si muove di striscio, inanellando momenti che paiono quasi allegri e che di colpo trapassano in dolorosissime melodie quasi ‘infantili’. Si ha l’impressione di stare assistendo ad un incontro fra Beck (folk song e campionamenti bizzarri) e Tom Waits (i fiati jazz di “Hospital Food”, ma pure il balletto meccanico di “Cancer For The Cure”). Con John Lennon dietro l’angolo (“Ant Farm”). “Electro-Shock Blues” può cambiarti la vita.
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