Bruce Springsteen – Born To Run

Non è solo il primo capolavoro riconosciuto di Springsteen, è anche uno dei pochi dischi che hanno segnato in profondità la storia del rock. “Born To Run” non è un’opera innovativa in senso stretto, piuttosto in sole otto canzoni riesce a riassumere vent’anni di musica, e lo fa in modo assolutamente geniale. Bruce è da sempre innamorato del rock and roll delle origini (cfr. “She’s The One”, dai chiari riferimenti a Bo Diddley), del rhythm and blues più frizzante (cfr. i fiati in “Tenth Avenue Freeze – Out”), del suono ruvido e spensierato degli anni Cinquanta. Ma è anche cresciuto con le canzoni di Bob Dylan e di Neil Young, artisti che nella loro parabola hanno segnato il passaggio dall’entusiasmo e dall’innocenza degli albori del rock ai sogni degli anni Sessanta sino all’amara disillusione dei Settanta. E inoltre il Boss è appassionato delle “canzoni per cuori infranti e solitari” interpretate da Roy Orbison. Nei solchi di “Born To Run” c’è tutto questo: la voglia di riscatto e l’energia che ti permette di scappare da “una città piena di perdenti” per andare a “vincere” (sono questi gli ultimi versi di “Thunder Road”, uno dei brani più emblematici), gli impulsi vitali che facevano parte del DNA del suono dei Fifties riversati in note fiammeggianti. Ma tale positività è filtrata attraverso una diversa consapevolezza: quella di un uomo che sa quanto il Sogno Americano sia distante dalla realtà di tutti i giorni. Così Bruce scrive un pezzo come la title – track, che descrive con immagini quasi apocalittiche le vite inghiottite da quella che, il più delle volte, si rivela solo un’illusione. Certo, in tutto il disco non manca mai la scintilla dell’ottimismo, e anche per questo la musica di Springsteen è pura Mitologia Americana. Ma non di quella retorica e a buon mercato, anzi. Si percepisce la fatica e la sofferenza in ogni verso di canzoni quali “Backstreets” e soprattutto “Jungleland”, che impressiona per la sua capacità di passare continuamente dal tono lirico a quello epico, senza forzature, mantenendo intatta l’unità narrativa di quella che potrebbe essere una sceneggiatura cinematografica. L’aiuto in senso strettamente musicale che la E Street Band dà al Nostro è immenso: l’accompagnamento pianistico e i rintocchi di glockenspiel sono perfetti nell’enfatizzare il cantato veemente e i riff secchi e incisivi della chitarra del solista, che all’occorrenza sfodera anche l’armonica, mentre gli assoli al sassofono di Clarence Clemons esplodono all’improvviso e producono colossali climax emotivi. Il Wall of Sound è imponente. Springsteen dirà che voleva fare un disco con le parole di Bob Dylan che suonasse come Phil Spector. “Born To Run” è infinitamente di più. Della sua grandezza, finalmente, se ne accorgerà anche il pubblico, che per la prima volta premierà una fatica del Boss pure a livello commerciale, proiettando l’LP al terzo posto della classifica statunitense: ad oggi sono sei i dischi di platino che ha conquistato solo in patria.

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