Quando pubblica “Rimmel”, Francesco De Gregori ha già all’attivo tre album, il primo condiviso con Antonello Venditti (“Theorius Campus”, 1972), e il successivo, “Alice non lo sa” (1973), forte del successo del brano omonimo. Sospeso fra Dylan e De André, il cantautore romano, almeno apparentemente, non sembra avere una grande personalità. Non è così. “Rimmel”, nell’ambito della canzone d’autore italiana, è un’opera rivoluzionaria. Non tanto per “Buonanotte fiorellino”, la canzone più celebre; non tanto per l’impegnata “Pablo”, scritta insieme a Lucio Dalla per la parte musicale; quanto piuttosto per la title – track, in cui svettano tastiere fortemente Dylaniane, e per altre composizioni come “Pezzi di vetro”, “Il signor Hood”, “Quattro cani” e “Piccola mela”, segnate da una poetica a metà strada fra ermetismo colto e realismo popolare. Due poli semantici opposti, i quali vengono però tenuti in perenne tensione comunicativa tramite incessanti sovrapposizioni di immagini ora dolcemente quotidiane ora oscuramente simboliche. Proprio a causa di questa voluta ambiguità, le composizioni di De Gregori saranno spesso criticate da più parti. Oppure adorate da centinaia di migliaia di persone. La forza del Nostro risiede proprio in questo dualismo, che permetterà a “Rimmel” di vendere più di mezzo milione di copie e di essere il secondo album più acquistato in Italia nel corso del 1975.
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