Il grande capolavoro del cantautore bolognese, figura fra le più tipiche dell’Italia dei Settanta, imbevuta di ideali rivoluzionari e, allo stesso tempo, capace di ripiegarsi nel pessimismo più plumbeo e nella malinconia più pura, come i tre dischi precedenti dimostrano ampiamente. Artista schivo e appartato, Claudio Lolli non condividerà mai la fama eccezionale di alcuni suoi colleghi, a partire proprio da quel Francesco Guccini che lo scoprì in un’osteria di Bologna. Eppure le sue canzoni hanno costituito una sorta di sismografo degli umori (e degli amori, e degli orrori, e delle speranze e paure) del decennio “di piombo” italiano. “Ho visto anche degli zingari felici“, realizzato insieme al Collettivo Autonomo Musicisti di Bologna, aggiunge a tutti questi elementi anche una ricchezza musicale davvero inusitata per il cantautorato d’allora: si tratta di una lunga suite suddivisa in otto canzoni, collegate fra di loro da un discorso lirico – la lotta politica che s’intreccia alle stragi e alle tragedie dell’epoca – e sonoro, in cui i frequenti assoli di sassofono tenore e contralto s’integrano alla perfezione con il canto dimesso e gli accordi della chitarra acustica di Lolli. In alcuni momenti gli arrangiamenti sfiorano la complessità del progressive. Semplicemente, uno dei momenti più alti della musica italiana dal dopoguerra ad oggi.
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