Fondati da Steve Albini, musicista, produttore discografico e mente pensante fra le più acute del rock alternativo americano, con “Atomizer” i Big Black pubblicano il loro primo long playing dopo una serie di EP imbevuti di un cinismo e una cattiveria agghiaccianti. Quest’album non è da meno, anzi eleva all’ennesima potenza il noise – rock feroce e assassino della band, evoluzione tossica dell’industrial degli Swans (a conti fatti, la loro principale influenza in quest’emissione), dell’hardcore dei Big Black e della no wave più opprimente. C’è un pre – Atomizer e un post- Atomizer, e non è neppure troppo temerario affermare che solo dopo questo capolavoro di potrà parlare con cognizione di causa di post – hardcore. Sostenuti dal battito freddo, brutto e sgradevole di una drum machine, gli accordi lividi e affilati di “Jordan, Minnesota”, “Passing Complexion”, “Stinking Drunk” e “Bazooka Joe” s’irrigidiscono in riff reiterati e detonati nel modo più assordante possibile. La chitarra di Albini smozzica note deturpate, la sua voce è un urlo/rantolo implacabile. “Bad Houses” rappresenta una versione industriale del dark sound, “Kerosene” rimane il vertice assoluto dell’opera (e dell’intera discografia del complesso): l’acuminato, metallico e dissonante riff introduttivo viene accresciuto di potenza tramite clangori di basso e distorsioni lancinanti, in un’alternanza vuoto/pieno che quando esplode nel più fragoroso caos rumorista non ha nulla da invidiare alla furia belluina del death metal, pur essendo tutt’altro (si preannunciano gli Unsane). I testi sono un perfetto spaccato di noia, alienazione suburbana e vite di scarto. In futuro altri dischi sapranno essere più pesanti di “Atomizer”, nessuno lo supererà in intensità.
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