Disco di diamante in USA e Canada, numero uno in decine di nazioni, oltre 25 milioni di copie vendute. Con “The Joshua Tree” gli U2 diventano definitivamente i dominatori del rock degli anni Ottanta, nonché una delle band più celebri della storia. Ma l’influsso di questo album va ben oltre i suoi dati numerici. Si tratta di un tassello fondamentale nella ridefinizione dei canoni di un genere nato più di trent’anni prima e che nel quartetto di Dublino trova i suoi nuovi tedofori. Ispirate dalle tournée della band negli Stati Uniti, registrate e prodotte in Irlanda da Daniel Lanois e Brian Eno (fondamentale il loro tocco ai fini della riuscita del progetto), le 11 tracce dell’opera sanno unire echi di blues, soul e persino gospel nel tessuto dell’ormai consolidato sound post – punk/new wave di Bono e compagni. Così come, a livello lirico, celebrano il matrimonio fra i vecchi anthem intrisi d’utopia europea e i nuovi fremiti provenienti dall’aver guardato all’interno del Sogno Americano, provandone stupore misto a paura. L’incipit di “Where The Streets Have No Name”, suono di tastiera a mo d’organo chiesastico e poi un inconfondibile arpeggio in crescendo della chitarra elettrica di The Edge, rappresenta già molto dell’atmosfera, giocata su contrasti fra luce e oscurità, che si respirerà lungo tutto l’LP. E la scontrosità post hard rock di “Bullet The Blue Sky” rimane uno dei momenti più interessanti e meno pubblicizzati di “The Joshua Tree”. Il quale, dopo Elvis, Beatles, Rolling Stones, Bob Dylan, Neil Young, Led Zeppelin, Bruce Springsteen e pochissimi altri, impone gli U2 come i portatori di una nuova classicità rock, fra le ultime possibili.
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