Correva l’anno 2002 e i fan degli Alice In Chains erano ormai rassegnati. L’inattività del gruppo si protraeva ormai da anni e l’ultima immagine del frontman Layne Staley è quella gracile, aggrappata alla sedia sul palco dell’Mtv Unplugged del 1996. Poi niente più, il cantante è troppo debole per salire sul palco o entrare in studio.
Consumato dalla droga nel fisico e nello spirito si chiude in se stesso allontanandosi da amici e parenti in un vortice di autocommiserazione tipica di chi porta sulle spalle una scimmia urlante che col tempo ha affondato le unghie così in profondità da non poter essere più rimossa.
Il 19 Aprile la notizia che non stupisce nessuno: Layne viene trovato morto nel suo appartamento, dopo due settimane dalla morte, avvenuta per overdose di speedball (un mix di cocaina e eroina) il 5 Aprile.
A 15 anni dalla sua scomparsa l’amore dei suoi fan non è minimamente diminuito, anzi. Il motivo è che la trasgressione più grande di Layne Staley era una cosa più sconvolgente di qualsiasi droga. Layne è sempre stato sincero e onesto, in un modo che ha mescolato la sua vita e la sua arte in maniera indistinguibile.
Questo lo rendeva unico e controcorrente in un mondo ipocrita e di facciata come era quello del rock degli anni ’90, un teatrino insopportabile anche per il suo rappresentante più famigerato, Kurt Cobain (che si è ucciso lo stesso giorno di otto anni prima).
Lasciarsi sopraffare dalla droga è stato un modo per chiudere il sipario su un mondo che non aveva più nulla da dargli, sopratutto dopo la morte nel 1996 dell’amore della sua vita Demri Parrot. Un altro elemento unico nel mondo del rock, un legame tormentato che si frantumava nella tormenta ma che rinasceva inesorabilmente dalla cenere. Una tempesta sentimentale che nella vita artistica di Layne era un fulcro costante il cui punto più alto è stata la scrittura del fantastico album del supergruppo Mad Season “Above”, in cui militavano anche Mike Mcready dei Pearl Jam e Mark Lanegan.
La droga è sempre stata il motore centrale di innalzamento e di discesa negli inferi della vita di Layne Staley anche artistica, e questo non l’ha mai nascosto. È stato sempre chiaro, fino alle ultime parole regalate ad un’intervista. “La droga mi ha aiutato a cavalcare l’onda del rock” dice Staley, “ma dopo è venuta a chiedere un conto salatissimo”. Lui lo ha accettato, e i suoi fan con lui.
È questo il rapporto particolare che lega i fan degli Alice In Chians alla loro musica. Il potere di quel rock pesante venato di atmosfere dark appaga i suoi fan, li fa ballare e urlare, ma in fondo alla coscienza loro sanno il dolore che tutto questo ha causato, legandoli a quella musica in un abbraccio empatico che non ha eguali nella storia della musica. Amare gli Alice In Chains è un po’ come nascere e morire ogni volta, la voce di Layne ci scatena nelle nostre passioni recondite ma al tempo stesso ci appesantisce dell’assurdità della vita in un mondo dove è impossibile essere se stessi.
L’emblema della sincerità di Layne sta nel verso di “Nutshell” dove dice “se non posso essere me stesso, preferisco essere morto”. E così è stato.
La musica e le parole di Layne Staley hanno influenzato non solo milioni di fan ma anche innumerevoli colleghi musicisti. I tributi al suo ricordo sono numerosi. Aaron Lewis, frontman del gruppo Staind, in “Layne” enuncia una struggente dedica alla musica del cantante di Seattle, ringraziandolo di averlo aiutato a sopravvivere a momenti bui della sua vita trasformando il dolore che trapelava dai versi delle canzoni in resilienza. Lo ringrazia al punto da dedicargli la nascita della figlia Zoe, perché salvando lui ha permesso la sua esistenza. “Layne” è anche il titolo di una canzone dei Black Label Society di Zakk Wylde, mentre Eddie Vedder dei Pearl Jam la notte stessa in cui ha saputo della sua morte ha registrato un rabbioso pezzo intitolato “4/20/02” accusando tutti gli artisti che hanno copiato lo stile di Layne vampirizzando la sua arte ma ignorando indifferenti il morbo che lo stava consumando.
Gruppi che sono stati influenzati dallo stile di Layne sono talmente tanti da rendere difficile sceglierne alcuni. I più importanti sono sicuramente i Godsmack (nome preso dal titolo di una canzone degli Alice In Chains) i Nickelback, e i Theory Of a Deadman .
Layne Staley non si venderà mai al mainstrem, non farà mai un pezzo elettro-pop o uno spot imbarazzante. Non ci tradirà mai, perché la sua immagine è fissata nel tempo per sempre. La sua sincerità dolorosa, impudente, ci insegna che non dobbiamo cambiare noi stessi o pretendere di essere meglio di quello che siamo ai nostri occhi e a quelli degli altri. Era un artista a tutto tondo, un pittore (il potentissimo concept art della copertina dell’album dei Mad Season è opera sua e rappresenta in maniera destabilizzante il legame spinoso che lo legava a Demri) e poeta, che comunicava con lo spirito ancor prima che con le corde vocali.
Con questa playlist ripercorriamo le sue gesta artistiche di foga rabbia e dolore, per poi viaggiare tra le note di chi lo ha amato in musica, citandolo direttamente e indirettamente, in questo abbraccio sanguinoso che lega alla musica tramite amore, odio e poi ancora amore. Love, Hate, Love.
Daniele Corradi