Fleetwood Mac, i quarant’anni di Rumours

Parlare di un disco che si intitola “Rumours” proprio in estate, stagione madre dei pettegolezzi,  a quarant’anni dalla pubblicazione e con alle spalle più di quaranta milioni di copie vendute, sembra un triviale esercizio di analogie e coincidenze. Ma l’occasione di ripescare dalle nostre raccolte quello che è una delle tappe fondamentali dell’evoluzione della musica popolare anglo-americana è troppo ghiotta… e non ce la facciamo scappare.

Dato alle stampe nel lontano 1977, “Rumours” fece subito il botto, confermando il successo ottenuto dai Fleetwood Mac con il precedente e omonimo disco del 1975 . Dopo un sostanziale cambio di formazione avvenuto qualche anno prima, la virata decisa dal blues-rock del periodo in cui Peter Green trainava la band verso un pop-rock contaminato, di cui questo nuovo album rappresenterà la quintessenza, era stata la naturale conseguenza dell’entrata nella band di Lindsey Buckingham e della sua compagna Stevie Nicks, al tempo duo in attività già da qualche anno. La cosa avrebbe da lì in avanti scombussolato gli equilibri musicali della band, tanto che ancora oggi risulta difficile inquadrare un genere nel quale archiviare la produzione del gruppo sulla fine dei Settanta.

Quello che ne scaturì fu un perfetto compendio di blues, rock, pop e country capace di fondere gli stilemi dei vari generi per creare un mosaico di suoni e tendenze dall’impatto commercialmente devastante: melodie semplici ma raffinate, intuizioni memorabili e la possibilità di lavorare uniti ma divisi, hanno reso questo disco unico e per certi versi inarrivabile per anni.

Già a partire dal titolo la band non voleva nascondersi o trovare scuse per un lavoro mediocre: le tensioni interne e le voci sui componenti, legati fra loro da relazioni amorose e affettive in sgretolamento o già belle che andate, non avrebbero dato al disco il sapore di una “end of story”, bensì sarebbero state un punto di partenza su cui costruire un nuovo metodo di lavoro che avrebbe dato contemporaneamente più spazio alle individualità, ma anche portato a collaborazioni professionalmente più strette. Chiosa a questo processo evolutivo una produzione sopraffina capace di concretizzarsi come fosse un direttore d’orchestra a dosare la chitarra, l’organo e le ritmiche, in modo da dare orecchiabilità e spessore ai brani valorizzando gli intrecci e le armonie vocali della band e delle sue due cantanti femminili. Non da ultimo gli spazi che, come accennato prima, sono stati lasciati a ciascun membro in fase di scrittura, tanto che il disco annovera alcune hit-single dai diversi accrediti, come brani scritti in team. Ma veniamo alle canzoni.

L’inizio è affidato al blues-rock di “Second Hand News”, dal ritmo scanzonato ed entusiasta contrapposto al testo della canzone, che già ci introduce al tema della rottura e delle voci di contorno. In coda cori e voci che si intrecciano fino al mini assolo di chitarra che dissolvendosi fa da traino alla partenza di “Dreams“, brano iconico e pluricoverizzato, sintesi di un pop-rock che sa asservire anche il beat della disco anni settanta. Qui il canto è una sorta di presa di coscienza lamentosa, ma non tediosa, di un dopo rottura: il brano porta la firma di Stevie Nicks, è chiaramente autobiografico e porta il ruolo di Buckingham come arrangiatore a vette di servilismo musicale inedite, in cui la musica si piega ad umile ma indispensabile serva della voce e della ballata di cui è narratrice. Successo senza tempo.

Il terzo capitolo del disco è un quadretto acustico in cui arpeggi e chitarra la fanno da padrone: “Never Going Back Again” ha un testo breve e semplice e la musica non fa nulla per complicarlo inutilmente; “Don’t Stop”, invece, con un bel pianoforte e il suo ritmo cadenzato suggerisce di proiettarsi verso il domani senza soste e con una buona dose di ottimismo.

Il rock torna prepotente nella bellissima “Go Your Own Way”, in cui il ritornello si contrappone ai controtempi dei versi creando un’alchimia unica e di successo. È il brano più rockeggiante del disco, uno di quelli capaci di incantare chiunque.

Christine McVie, l’altra voce femminile, sfodera i suoi talenti in “Songbird”, una ballata malinconica in cui piano e voce creano un velo poetico a fare da cornice al cantato quasi sussurrato, tant’è dolce e posato.

Altro brano da antologia è “The Chain”, quello forse più complesso a livello strutturale del disco: scritto dall’intera band, parte da una base cadenzata su cui si vanno a installare cori e intrecci di voci, preludio alla chiusura elettrica affidata alla chitarra e ad un assolo che sembra proiettarsi verso il resto del disco.

You Make Lovin’ Fun” ritrova alla voce Christine McVie, rilanciata in un pop-blues che crea un’atmosfera sognante sul finale, che vede un crescendo di note e cori. E’ un altro esempio di come il gruppo fosse in stato di grazia nel creare nuove alchimie sonore capaci di andare oltre i generi.

I Don’t Want To Know” riporta verso suoni più chiari e ritmi più accesi, ma senza strafare. No, questo proprio non è un album in cui c’è spazio per accrocchi o artifici eccessivi. Il suo appeal sta proprio in tutt’altro.

Oh Daddy” è il brano oscuro del lotto: scritto dalla McVie che al tempo dichiarò di averlo composto pensando a Mick Fleetwood, risulta a metà fra un’ammissione di colpe amorose e una dichiarazione di venerazione professionale piuttosto sofferta. Difficile leggere fra le righe del testo, essendo lessicalmente facile e diretto. L’ambiguità sta tutta nelle situazione complessa in cui versava il gruppo nel momento in cui il pezzo è stato scritto, mentre chiaro è l’intento di Buckingham di rendere il brano via via più solido, aggiungendo strati di voci e chitarra nel suo dispiegarsi.

Gold Dust Woman” è targato Nicks: il brano dalla natura ipnotica mostra tutto quanto i futuri lavori, anche solisti, della strega del rock rappresenteranno. Un talento cristallino fino ad allora troppo sottovalutato da songwriter. Chitarre dal suono sintetico , voce evocativa da femme fatale completano un quadro complesso e molto evocativo.

Questo è “Rumours” nella sua versione originale: negli anni è stato rieditato con l’aggiunta di alcune chicche e b-sides a seconda del mercato di vendita. Persino gli autori di “Glee” ne hanno “abusato” per costruirci sopra la colonna sonora di un’intera puntata della nota serie televisiva.

Nel tempo in molti hanno reinterpretato i suoi brani, dando loro nuove vesti e smalto, ma alla fin fine “Rumours” resta un grande album perché sintesi di un perfetto lavoro d’insieme, in cui la produzione ha saputo esaltare le parti e le doti dei componenti, facendo in modo che la loro somma ottenesse una plusvalenza difficilmente ripetibile. Ancora oggi risulta un prodotto fresco e appetibile, che può ottenere un ottimo indice di gradimento e far ancora strabuzzare gli occhi di fronte al risultato di un prodotto di insieme che non può assumere il nome di concept solo per la frammentarietà delle sue parti. I brani che compongono “Rumours” sono tutti potenziali hit se presi singolarmente, e sono ben armonizzati fra loro, ma pur sviluppando una serie di temi connessi non lo fanno con uno sguardo d’insieme, perché il tutto fu composto e realizzato senza che alla base ci fosse un progetto univoco che avesse il risultato come fine ultimo. O almeno questo è quello che si tramanda fra le leggende della musica.

Christian Jonoch