Il metallo di massa ha vissuto un anno interlocutorio. Ci sono stati ritorni di grandi nomi ed esordi convincenti, ma nessun titolo ha messo d’accordo completamente la nutrita platea appassionata di sonorità heavy. Ecco tra conferme, sorprese e lavori sottovalutati il meglio che la musica pesante ci ha offerto nel 2017. In rigoroso ordine alfabetico.
AKERCOCKE – RENAISSANCE IN EXTREMIS
Il ritorno degli Akercocke è stato tanto inaspettato quanto clamoroso, all’estero si sono sperticati in lodi ed esaltazioni forse anche troppo generose. Sta di fatto che con il progressive death metal di “Renaissance in Extremis” non ci si annoia un attimo, ma non ci si può neanche permettere di distrarsi mezzo secondo per non perdere il filo del discorso. Di sicuro la componente death contribuisce a mantenere il sound con i piedi per terra, evitando di partire del tutto in quarta sulle ali degli svolazzamenti prog. Dedicategli tempo, e vi ripagherà molto bene.
AUGUST BURNS RED – PHANTOM ANTHEM
Gli August Burns Red sono il non plus ultra nella loro categoria. La pacca, l’attitudine, l’amore per le costruzioni complesse e gli inserti pescati da generi anche molto diversi dal metalcore (vedi il country), oltre che una coppia di chitarristi che dire talentuosi è poco, sono da sempre le caratteristiche che ne hanno fatto un vero e proprio cult tra gli appassionati. Anche in questo “Phantom Anthem” i Nostri si confermano garanzie assolute.
BODY COUNT – BLOODLUST
Nonostante una cover degli Slayer abbastanza triste, Bloodlust conferma che Ice-T e compagni sono davvero impegnati a vivere una nuova giovinezza. Probabilmente meno selvaggia rispetto a quando parlavano di poliziotti scannati, ma certamente ancora piena di attitudine e voglia di spaccare. Pezzi come “Civil War” e “Black Hoodie” sono da manuale del crossover.
CANNIBAL CORPSE – RED BEFORE BLACK
Ennesimo sigillo in casa Cannibali. In tutto e per tutto simile al buonissimo predecessore, “Red Before Black” ripresenta i maestri del brutal alle prese con ciò che hanno contribuito a creare nei primi anni novanta, condito con una sana attitudine thrash-live che rende il disco piacevolissimo. Certezze.
CAVALERA CONSPIRACY – PSYCHOSIS
Gravissimo errore snobbare il quarto (!) album dei fratelli Cavalera. Dal nulla questo “Psychosis” è ciò di più vicino possibile ai bei tempi andati dei Sepultura anni ottanta. Un fulmine a ciel sereno, una sorta di esagerato fan service che però non potrà far altro che gasare all’inverosimile chi ancora spera in un tour celebrativo della formazione che ha inciso “Beneath The Remains” e “Arise”.
CODE ORANGE – FOREVER
Tralasciando la titletrack (nonché primo singolo estratto), forse il pezzo più debole e meno rappresentativo del terzo lavoro dei Code Orange, “Forever” spiazza per l’andamento singhiozzante e meccanico, con pause teatrali e drammatiche tra l’energia muscolare e le eco più tetre. A proposito, è proprio quando i Nostri tirano le briglie al loro (post) hardcore che danno il meglio (vedi “Bleeding in the Blur”). Definitivamente un buon prodotto (intorno al quale all’estero c’è un hype assurdo). Impossibile non segnalarli, dato che ora tutti gli occhi sono su di loro.
CONVERGE – THE DUSK IN US
Potete ascoltare un qualsiasi disco dei Converge a scatola chiusa. “The Dusk In Us” non fa di certo eccezione con il suo misto di post-hardcore e, come lo definiscono in molti all’estero, “doom ‘n’ gloom”, da sempre il trademark della band capitanata da Jacob Bannon. Tutti i 13 pezzi che compongono il nono lavoro dei Converge hanno una personalità ben definita, a partire dalla monumentale title-track, che deve molto al side-project di Bannon, i Wear Your Wounds, o dalla conclusiva e granitica “Reptilian”.
DYING FETUS – WRONG ONE TO FUCK WITH
Non avendo ormai più nulla da provare al mondo, essendosi costruiti una carriera solida e lastricata di successi, i Dying Fetus sganciano una bomba assolutamente degna della loro fama. “Wrong One to Fuck With” è il solito mix letale tra tecnica e brutalità, dosati in egual misura per un risultato inappuntabile. In un’annata molto solida in territorio death (chiedere a Cannibal Corpse e Obituary, oltre che ai signori più sotto per conferme), è giusto premiare una volta tanto un nome meno pompato ma terribilmente convincente.
KREATOR – GODS OF VIOLENCE
Per Petrozza e soci questo è il quattordicesimo album in una carriera trentennale. I paladini del thrash teutonico ritornano e, con un pizzico di attenzione in più per melodie e pezzi celebrativi rivolti a chi non c’è più, riescono ancora a essere convincenti e irresistibilmente old school. Prendete pezzi come “World War Now” o “Lion With Eagles Wings”, e vedrete che l’attesa di cinque anni dall’ultima fatica dei Kreator è valsa la pena. Tra l’altro GOV è finito in molte classifiche europee, testimonianza del fatto che Mille non ha fatto i conti senza l’oste.
LEPROUS – MALINA
I Leprous ormai sono una garanzia del prog moderno. I norvegesi infatti, hanno limato del tutto ogni aspetto che potesse essere anche solo lontanamente heavy a favore dei chorus memorabili e della melodia (vedi “From the Flame”, “Stuck”, “Coma” e “Illuminate”). Ma nonostante siano (diventati) più “leggeri”, sono ben lontani dall’essere accessibili alle masse, complici le loro poliritmie e una ricercatezza molto più profonda di quanto si possa notare in superficie.
MORBID ANGEL – KINGDOMS DISDAINED
Dopo i disastri in formazione, diversi tour annullati e il tremendo “Illud Divinum Insanus”, è quasi miracoloso ascoltare quanto il nuovo album dei Morbid Angel sia convincente. “Kingdoms Disdained” è l’album death metal che i fan volevano, messo insieme grazie soprattutto al ritorno in formazione di Steve Tucker. In tempi di incertezze e superficialità continue, sapere che Azagthoth ne abbia ancora fa sicuramente bene al morale dei metallari quarantenni.
NOTHING MORE – THE STORIES WE TELL OURSELVES
Ora che dopo le nomination ai Grammys sono sulla bocca di tutti, e dopo che le webze nazionali se lo sono levati in fretta dalle scatole con giudizi positivi d’ordinanza (quelle poche che lo han recensito tra l’altro), sembra facile mettere questo album tra i top del 2017. Tuttavia avevamo capito da subito che il disco in questione aveva dentro dei ganci incredibili, e che poteva essere davvero quanto di meglio desiderabile ambito alt-metal dell’anno (oltre che il miglior lavoro di sempre per la band stessa). I Nothing More in “The Stories We Tell Ourselves” dimostrano una volta per tutte cosa sono capaci di fare. Il tratto distintivo rimane Johnny Hawkins, che ha spianato la strada a tanti “nuovi” vocalist con il suo cantato, e il sing-along praticamente costante anche se su lyrics impegnate. Easy solo di facciata, ma frutto di uno studio in cui nulla è lasciato al caso.
OVERKILL – THE GRINDING WHEEL
Una band di veterani che non molla un colpo. A distanza da “Ironbound” (2010), Bobby Blitz e compagni dimostrano ancora oggi di avere doti compositive assurde in ambito thrash, ben superiori a quelle dei ben più sponsorizzati (ma molto meno ispirati ai giorni nostri nonostante le apparenze) coetanei Metallica, Megadeth e Testament. Grinding Wheel non fa prigionieri, ed è un album totalmente imperdibile per gli appassionati di metallo che conta.
PAIN OF SALVATION – IN THE PASSING LIGHT OF DAY
Forse nemmeno i fan più accaniti si potevano aspettare un ritorno simile. I PoS al decimo album calano un jolly inaspettato. “In the Passing Light of Day” non è per nulla un disco facile, e riflette gli ultimi turbolenti anni della formazione (sia a livello privato che professionale). La malinconia e la vulnerabilità, presenti fin dalla opener “On a Tuesday”, con il suo parlato pregno di significato sulla vita e la morte, permeano tutto il disco per arrivare infine alla titletrack, posta simbolicamente in chiusura dell’opera. Un lavoro di rilievo assoluto per tutto il movimento prog.
PARADISE LOST – MEDUSA
I pionieri del doom/death metal ritornano con un album che è un vero e proprio macigno. Complice anche l’arrivo del giovanissimo Waltteri Väyrynen alle pelli, che ha portato carne fresca e rinnovata energia ai Paradise Lost, i Nostri sfornano un lavoro davvero pesante, miscelando uptempo (“Blood and Chaos”) e downtempo (“Gods of Ancients”), che si rispecchiano rispettivamente nell’alternarsi del cantato baritonale o death di Nick Holmes. Alzi la mano chi credeva che i Paradise Lost avrebbero potuto buttar fuori un altro disco del genere dopo così tanti anni di carriera alle spalle.
POWER TRIP – NIGHTMARE LOGIC
Solo il fatto di aver inciso la canzone thrash metal del 2017 (per chi vivesse sulla luna si tratta di “Executioner’s Tax”), i Power Trip meriterebbero la posizione più alta in un articolo che parla di metallo. Detto questo, “Nightmare Logic” è quanto di meglio si possa ascoltare oggi se si pensa ancora di vivere a cavallo tra Ottanta e Novanta. Potenzialmente con il prossimo album potrebbero davvero diventare grossi.
SEPTICFLESH – CODEX OMEGA
I greci arrivano al decimo sigillo confermandosi padroni assoluti della scena death sinfonica. La loro credibilità, costruita in anni di carriera, è tale da rendere ogni uscita un evento per gli appassionati del genere. “Codex Omega” non inventa (oramai) molto, ma conferma che ancora una volta quando i Septicflesh suonano, tutti gli altri prendono appunti.
STONE SOUR – HYDROGRAD
L’uscita del singolo di lancio “Fabuless”, fu una ventata di classicismo necessario in un momento in cui la musica pesante annaspava. Corey non avrà probabilmente messo insieme la migliore collezione di pezzi possibili, ma “Hydrograd” suona genuino e sentito, senza sovrastrutture inutili e con tanta voglia di suonare la musica che si ama. Un tributo e una dichiarazione di intenti inequivocabile, che ci ha ricordato il perché amiamo alla follia questo genere.
THE CONTORTIONIST – CLAIRVOYANT
Al quarto album, i Contortionist hanno messo tutto ciò che avevano sul piatto, consapevoli di poter clamorosamente perdere. Un inaspettato 31esimo posto nella US Billboard 200 e una risposta dei fan positiva, ha sicuramente confermato che non abbiamo a che fare con una band qualsiasi. “Clairvoyant” abbatte le barriere e prova a stabilire delle nuove regole del gioco in campo underground, con un obiettivo ben preciso: riuscire a raggiungere l’audience più vasta possibile puntando sulla personalità e sulla qualità.
TRIVIUM – THE SIN AND THE SENTENCE
Non senza passi falsi, i Trivium sono riusciti a farsi accettare anche da chi, nel 2005, li considerava un fenomeno modaiolo e passeggero. Heafy e compagni incidono non solo uno dei propri migliori dischi di sempre, ma un lavoro che ha incontrato il favore di quasi tutta la community metallara. Non male per un gruppo che dato per morto dopo “Shogun”, ha saputo proseguire un percorso artistico coerente e convincente.