Ho un tatuaggio sul polso sinistro. È uno stickman con capelli folti e le mani alzate al cielo. È lo stickman simbolo dei Pearl Jam. Da sempre è connesso alla genesi del primo album, “Ten”, e mi è capitato di vederlo spesso impresso sulla pelle dei fan, accompagnato dal titolo o dai versi delle loro canzoni. Ecco, sotto il mio “omino” c’è una scritta diversa. Uno slogan che notai in qualche flash del documentario sui vent’anni di carriera del gruppo di Seattle, PJ Twenty: “Cultivate the Pearl”. Il motto recitato dai volantini attaccati sulle vetrine dei negozi di dischi, dei locali, sui pali della luce, alla rete dei campi da basket. Coltivare, far crescere, prendersi cura di qualcosa di prezioso, come una perla, come un nuovo progetto, un nuovo sogno. Colpita dalla forza di questo messaggio, provai a ritrovare l’immagine sul web. Non trovai niente, tanto che, per riprodurla, fermai la proiezione al secondo esatto e mi misi a ricalcarla su un foglio, da portare direttamente al tatuatore. Un messaggio che doveva girare in città, a quei tempi. A maggior ragione perché la band, una volta formata, nemmeno si chiamava così.
“La prima volta che ho parlato di Pearl Jam come nome del gruppo è stato quando io, Ed e Stone siamo andati a vedere i Sonic Youth aprire per i Crazy Horse. Suonavano nove canzoni in tre ore e ogni canzone era una jam session di quindici, venti minuti. A metà del set dei Crazy Horse, mi sono girato verso Stone e gli ho detto: “Che ne pensi di Pearl Jam?” – ha dichiarato Ament – “Un paio di anni dopo, la prima volta che abbiamo suonato al Bridge School Benefit di Neil Young, ho visto la grossa Chevy nera del ’55 di Neil e la targa era PEARL 10. Pensavo di sognare. Ho chiesto a Neil da quanto aveva quella targa e lui mi ha risposto che ce l’aveva da quindici anni”.
Durante quell’annata benedetta e maledetta che fu il 1990, infatti, era stato scelto il nome di Mookie Blaylock in onore del cestista dei New Jersey Nets. Sempre il bassista ha raccontato i retroscena della decisione: “Prima di registrare il primo disco, avevamo a disposizione una diaria di circa dieci dollari, così quando andavamo a comprarci da mangiare nel negozio in strada prendevamo sempre anche un pacchetto di figurine di giocatori di basket. Dopo aver registrato il nostro primo demo non avevamo ancora un nome per la band, quindi abbiamo inserito una figurina di Mookie Blaylock nella cassetta. Stavamo per fare concerti e ci serviva un nome al più presto. Ci dissero che non doveva essere un nome definitivo, ne bastava uno da usare per il tour. Qualcuno, vedendo quella figurina, ci disse: “Che ne dite di Mookie Blaylock?’”.
Si presentarono così, il 22 ottobre 1990, per il loro primo concerto all’Off Ramp Cafè di Seattle, in apertura agli Alice in Chains e condividendo la scena con gli Inspector Luv and the Ride Me Babies (che in seguito diventarono i Green Apple Quickstep) e ai Bathtub Gin, una simil cover band locale dei Phish. In un’intervista a Rockstar del 1996, Stone Gossard ricordò: “La prima data deve essere stata nell’ottobre del 1990, abbiamo suonato solo poche canzoni mi pare, ma avevamo provato per una settimana! La cosa più difficile è stata trovare il coraggio di salire sul palco: eravamo troppo emozionati“. Proveremo a raccontare il perché di quel brivido, ritornando fra le pareti del locale, osservando da vicino, da sotto palco, la formazione al debutto, riascoltando i brani che si susseguirono nella prima setlist.
L’OFF RAMP CAFÈ: Costruito intorno al 1908, l’Off Ramp Cafè si erge (con questo nome, ergeva) al n. 109 di Eastlake Avenue E. Nel tempo ha ospitato varie attività: da drogherie a farmacie sino a diventare il sito di una comunità afroamericana, The Town House Tavern, nel 1951. Gli anni Sessanta lo trasformarono in una parte della gigantesca discoteca Go-Go mentre, nella decade successiva, fu un club jazz, soul e R&B chiamato Gallery Tavern e, più tardi, The Funky Watergate. Soltanto nel 1986, il proprietario Lee Rea lo rispolverò dalla fama di locale lesbo, decidendo di ingaggiare le rock band della zona e consacrandolo come Off Ramp Cafè. Nonostante la piccola capienza (al massimo 300 persone), la posizione non fortunata e un parcheggio considerato una vera e propria sfida, il locale divenne presto un punto di riferimento per la musica emergente, per le idee rivoluzionarie e le nottate di divertimento. Scelto come location per la scena del live dei Soundgarden nel film “Singles” di Cameron Crowe, il cult movie sul panorama della Seattle anni Novanta, è stato anche il tempio della prima esibizione dei Temple of the Dog il 13 novembre 1990 e di un giovane gruppo proveniente da Aberdeen, i Nirvana, il giorno 25 dello stesso mese. Pur conservando un’aurea speciale per gli appassionati del genere, le porte dell’Off Ramp chiusero i battenti nell’aprile 1999, per poi riaprire, con la gestione di un nuovo management, sotto il nome di El Corazon.
LA BAND: Autunno 1990. Il chitarrista Stone Gossard e il bassista Jeff Ament, già conosciuti nell’ambiente per essere stati compagni nei Green River e nei Mother Love Bone, la band di una gloria locale, il carismatico Andy Wood, morto a 24 anni di overdose, tentarono di rimettere insieme i pezzi. Dopo un’estate trascorsa a riflettere sul loro futuro e sul significato della musica nelle loro vite – fortunatamente decisero che avrebbe avuto senso continuare a suonare – arruolarono, dapprima, il talentuoso Mike McCready, un velocista della sei corde, considerato l’arma segreta del gruppo che volevano costruire. Mancava, però, il tassello finale: il cantante.
Fecero circolare, così, una cassetta con una demo, l’antenata “Times of Trouble” e la futura “Footsteps”, che, grazie al contributo di Jack Irons (“Se conosci qualche cantante facci sapere” – “Sì, conosco un ragazzo. Eddie il pazzo“), finì nelle mani di un surfista e benzinaio di San Diego. Una voce sovraincisa, la voce che fece scoccare di nuovo la scintilla, fece credere di nuovo in un inizio. Eddie Vedder atterrò a Seattle e, dopo un’ora dal suo arrivo, volle cominciare subito, mettersi in gioco, scendere nello scantinato che ospitava le prove: “Era il seminterrato di una galleria d’arte e stavamo in una specie di corridoio. Mi ricordo che quando andavamo in bagno al piano di sopra, passavamo per tutte queste stanze che odoravano di pittura e di segatura. Alternavamo le prove con partite di biliardo, poi tornavamo a lavoro, circondati da bottiglie piene di pipì per tutte quelle volte che non avevamo voglia di fare le scale“. Scene rivissute anche nelle parole di Jeff Ament: “Nel momento in cui abbiamo iniziato a suonare ed Eddie a cantare per la prima volta mi sono detto: “Questo è un gruppo che ascolterei nel mio stereo a casa”. Quello di cui Eddie cantava era il luogo in cui ci trovavamo io e Stone. Avevamo appena perso un amico per una maledetta dipendenza e lui riusciva a mettere in versi i nostri sentimenti. L’ho visto come un fratello. È questo che mi ha riconvinto a fare musica. È come quando leggi un libro e ti imbatti in qualcosa che descrive quello che hai provato per tutta la vita”.
L’urgenza di esprimersi e di esibirsi era talmente grande che lo show dei neonati Mookie Blaylock, dopo sette giorni, non venne neppure annunciato. Nel video amatoriale di YouTube che ripropone il set in tutta la sua sgranata e preziosa integralità – per una durata di quaranta minuti circa, rigorosamente in bianco e nero – fu ripreso anche il momento del soundcheck, sulle note di “Even Flow”. T-shirt oversize, pantaloni corti da basket, anfibi e calzettoni pesanti che spuntavano fuori. E poi i cappelli: il bassista ne farà un segno di riconoscimento, per Stone era utile a contenere la lunga coda, per Vedder uno dei modi per nascondere la sua timidezza. Ament saliva e scendeva dal palco per testare i suoni. La registrazione si interrompe per un micro istante e riprende dall’inizio del concerto. Gossard era quello più a suo agio e ondeggiava al ritmo delle cadenze più funky mentre McCready infiammava già la folla con assoli al cardiopalma. Il batterista Dave Krusen quasi non si vedeva, nella debolezza delle luci. Un’ombra quasi profetica della sua breve militanza nel gruppo, presto abbandonato a causa dei problemi con l’alcool. Jeff, concentrato sullo strumento e avvicinatosi d’istinto a Eddie, evocava già l’immagine riproposta negli anni a venire e così amata dai fan. Il cantante, con la folta chioma rasata ai lati, si stringeva a braccia conserte, guardava spesso in basso ma non si risparmiava nella voce e nell’intensità, sciogliendosi a poco a poco, brano dopo brano.
LA SETLIST: Collocato in chiusura del venturo album di esordio, “Release” fu il primo brano che accese le casse dell’Off Ramp Cafè. Un arpeggio iniziale, un sussurro. Sembrava quasi il suono distratto di chi stava accordando uno strumento. Nella sala prove, dove tutto era iniziato, venne scambiato proprio per una semplice successione di note. Una formula magica, però. Un mantra. La preghiera a cui venne affidata la liberazione e la volontà di rivincita. Se nella prima strofa, come nella maggior parte delle canzoni suonate durante la serata, i versi erano per lo più provvisori e improvvisati, nella seconda Vedder scandì già le parole in modo più nitido. Con la figura paterna, evocata con l’informale “dad”, veniva ricercato un contatto, un dialogo, una risoluzione dal dolore (“I’ll hold the pain / Release me”) affrontato nelle vicende familiari, con la scoperta, a tredici anni, che il padre biologico era stato un amico di famiglia, ormai scomparso, e non l’uomo che aveva sempre visto accanto alla madre. Un battesimo artistico ed umano. Una catarsi. La rielaborazione di lutti tanto personali quanto comuni, nella band.
Seguì una versione non del tutto riuscita di “Alone“, esaltata però dalle fantasmagorie di McCready sul manico della chitarra. Il pubblico esplose su “Even Flow“, seppur in versione rallentata, “Black” e “Alive” che si preannunciò come candidata a diventare il capolavoro in cui riconoscersi. La band sostenne Vedder nell’entusiasmo e nella foga con cui eseguì “Breathe“, diventata parte della colonna sonora di “Singles” e in origine intitolata “A Breath and a Scream”. Si trattava di un lascito dei Mother Love Bone, conservato in uno dei primissimi demo ma mai rientrato nella scaletta di “Ten”: “Finì con l’essere un pezzo rock midtempo con un gran finale e, in un certo senso, avrebbe potuto ricordare “Alive” troppo da vicino” – ricorda Gossard. Anche qui, sebbene l’atmosfera sia più leggera e divertita, si parla di nascita: il saluto a qualcuno che viene al mondo, il consiglio di non aspettare risposte dall’alto ma “aggrappati a quel che riesci”, ragionando con la propria testa, l’overture al verso più celebrativo delle romantiche aspettative del panorama “grunge”, benché sempre avvolte in una nebbia di nichilismo (“If I knew where it was I would take you there / There’s much more than this”). Il live si chiuse con un encore, “Girl“, un brano oscuro, tirato, che tratta il tema dell’aborto. Si sarebbe potuto scommettere su questo come futuro pezzo di punta. In realtà costituì una rarità perché suonato un’altra volta dal vivo in tutta la carriera di Ed e compagni e apparso solo diciannove anni dopo in occasione della ristampa di “Ten”. Gli amplificatori si spensero. Lo sguardo di Vedder, ancora spaesato e allo stesso tempo compiaciuto. Il tempo di un saluto scarno di Gossard al microfono e poi spazio agli headliner.
Nessuno sapeva che cosa aspettarsi da quella band, da quella musica. Susan Silver, manager dei Soundgarden e allora compagna di Chris Cornell, ripercorse in un’intervista il clima di attesa che si respirava all’Off Ramp: “Tutti erano nervosi. Era quella la prima volta che molti fan avrebbero visto Eddie e si chiedevano chi fosse quel ragazzo, se fosse abbastanza in gamba per prendere il posto di Andy Wood. Ma poi il pubblico parve accettarlo con tutto il cuore“. Lo stesso emerge da un ricordo di Cameron Crowe, presente all’appuntamento con la storia: “La prima canzone che hanno suonato è stata “Release”. Ho guardato mia moglie Nancy e ho detto: “Quello è il ragazzo timido? Oh mio Dio”. Presto lo vedemmo dondolarsi dalle impalcature. In qualche modo fu una specie di finale per Eddie-il ragazzo dalla timidezza atroce”.
Dopo il debutto, per ancora un po’ di tempo, i cinque continuarono a girare con il nome Mookie Blaylock. Tuttavia, con la firma del contratto discografico la band dovette pensare a una ragione sociale priva di complicazione di diritti. Fu così che nacquero, definitivamente, i Pearl Jam. Cinque uomini, artisti, cinque sopravvissuti a quella scena così prolifica e, allo stesso tempo, così crudele da fagocitarne la maggior parte dei musicisti, che ricordiamo nell’eternità delle loro canzoni. E noi oggi, a ventinove anni dalla prima apparizione live, li aspettiamo per nuove date, emozioni e per urlare, ancora una volta insieme, che siamo ancora vivi. “La miglior giustificazione per il nostro nome sta nel riferimento alla perla stessa e al processo naturale da cui proviene: parte da scarti ed escrementi per diventare qualcosa di bello. È così che è iniziata la nostra band“.
La scaletta del primo concerto dei Pearl Jam
Release
Alone
Alive
Once
Even Flow
Black
Breath
Girl(Just A Girl) – encore
Laura Faccenda