Quest’anno, come noto, si celebrano i vent’anni di Nevermind, uno dei dischi più importanti dell’intera storia del rock, creato da una band che aveva fatto molto parlare di sé per il proprio debutto, ma dalla quale forse pochi si aspettavano qualcosa del genere. Qualcosa che potesse sconvolgere la vita di milioni di persone in ogni angolo del mondo, che riuscisse a spiegare il malessere di una generazione meglio di mille trattati di sociologia. Lo stesso Cobain probabilmente non se lo sarebbe mai aspettato. Da sempre diviso tra la voglia di assaporare il successo mondiale e il desiderio di non vendere mai i suoi sogni, Kurt finì per essere stritolato dal peso di un album diventato ormai più grande di tutto e di certo più della sua fragile psiche. Se è palese che non possa essere stato solo questo a portare la vicenda umana di Kurt al tragico epilogo che tutti conoscono, è anche vero che una persona da sempre combattuta tra mille contraddizioni interne, con un carattere tendente alla malinconia e agli stati depressivi come lui non sia stato in grado di rispondere alla forza d’urto che quel successo si portava dietro. Riuscire a tollerare le mandrie di caproni che vengono ai tuoi concerti storpiando le tue canzoni o cantando solo “Smells Like Teen Spirit”, riuscire a capire che dieci milioni di dischi in un anno non ti hanno cambiato dentro, che non hai rinnegato la filosofia del do it yourself, né tanto meno i tuoi principi. Tutte cose che Cobain non riuscì a fare.
Kurt stimava enormemente un gruppo come i Rem, in grado di pubblicare dischi con una major senza scendere a compromessi, mantenendo un’identità e, soprattutto, una coerenza ben definita e non è un caso che prima di togliersi la vita abbia messo sul piatto del giradischi proprio quell’ “Automathic For The People” simbolo della sua stima nei confronti della band. Stipe lo omaggiò con “Let Me In”, brano straziante di un album, “Monster”, che sarebbe piaciuto moltissimo all’amico e che dimostrava ancora una volta l’indipendenza della band di Athens. “In Utero” fu l’estremo tentativo di Kurt di fare pace con se stesso ancor prima che con chi credeva di aver deluso con “Nevermind”, ma troppi problemi interiori e di vita di tutti i giorni avevano ormai creato un sentiero impossibile da interrompere. Forse una socialità differente avrebbe potuto arginare un po’ il suo animo tormentato, ma pare tuttavia riduttivo e forse anche demagogico cercare in un solo aspetto l’origine di tanto dolore. Quando le notizie relative al tentato suicidio di Roma iniziarono a fare il giro del mondo, tutti capirono che la cosa era solo rimandata: per una persona che vuole togliersi la vita, infatti, non c’è niente di peggio che sopravvivere. A distanza di vent’anni ci resta un album sublime che suona ancora come un grido disperato e, allo stesso tempo, un monito costante sul dramma di una generazione non così dissimile da quelle succedutegli.
Luca Garrò