La classe non è acqua e il ritorno dei Depeche Mode dimostra la fondatezza di questo vecchio adagio apparentemente superficiale e retorico. Perché c’è bisogno di quel quid in più per rialzarsi dopo un colossale fail come quello di “Sounds Of The Universe” (2009), un’ora di noia pseudo cosmica inframmezzata da synthpop piattissimo. E farlo avendo alle spalle più di trent’anni di carriera è prerogativa che solo i più grandi possono vantare. “Delta Machine” è il volto della riscossa, e nonostante qualche caduta di tono qua e là rappresenta, nel complesso, la riscoperta della vera identità da parte di Dave Gahan, Martin Gore e Andy Fletcher. Per la precisione, quella cupa dei primi anni Novanta, claustrofobica e opprimente, grazie alla quale sbocciarono capolavori del calibro di “Violator” (1990) e “Songs Of Faith And Devotion” (1993). Ora. Non siamo precisamente sugli stessi livelli, ma è innegabile che il tredicesimo full – length della band britannica si attesti su livelli più che buoni. Alcuni flash sono davvero notevoli, e soprattutto: la melodia che cozza contro l’elettronica di “Broken”, i riflussi dark dell’inquietante “Welcome To My World”, gli scatti soavi/rabbiosi di “Angel”, il blues alieno di “Goodbye”, infine l’apice assoluto contenuto nell’ipnosi sensuale di “Slow”. Poca noia e molte emozioni; questi sono i Depeche Mode che tutti noi riconosciamo.
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