Un po’ tardi? Forse, ma a volte conviene prendersi un mese in più e analizzare bene la situazione. Eccovi il nostro resoconto sui dischi e gli artisti che hanno segnato il decennio appena trascorso. Il sound degli anni ’00, senza limiti di genere, passando da quelli che conoscono tutti, a quelli che solo alcuni ascoltano. Mancherà questo oppure quell’altro, ma sicuramente molti dei presenti hanno lasciato qualcosa di grosso tra il 2000 e il 2009, hanno fatto parlare di sé e hanno colpito un folto pubblico, che poi vi piacciano o meno questo è un altro paio di maniche…
Queens Of The Stone Age – Songs For The Deaf (2002). Dave Grohl + Josh Homme + Nick Olivieri + Mark Lanegan = un’alchimia perfetta che ha portato ad una serie di pezzi (“No one knows” e “Go with the flow”, limitandoci ai singoli) spaventosi. I primi due ci hanno (ri)provato con l’aiuto di John Paul Jones, nei recenti Them Crooked Vultures, con risultati positivi ma ben lontani da SftD
The Dillinger Escape Plan – Irony Is A Dead Scene (2002). Il miglior disco degli statunitensi è un mini scritto nel periodo di transizione tra l’era Minakakis e quella Puciato. Con la piccola differenza che a cantare c’era Mike Patton. Quattro pezzi, tra cui una cover di Aphex Twin, capace di fare implodere l’hardcore dall’interno e farlo rinascere sotto nuova forma.
Notwist – Neon Golden (2002). L’indie-tronica diventa moda tutta d’un tratto (pubblicità, moda e affini ne rapiscono le melodie). Berlino l’ha fatta nascere e l’ha esportata. I Notwist (con i Lali Puna) uniscono elettronica tedesca al folk americano. Immediati, leggeri e semplici. Pieni di malinconia e con canzoni che penetrano indissolubilmente in chi le ascolta.
Nile – In Their Darkened Shrines (2002). Assimilare orchestrazioni arabeggianti e strumenti etnici all’ultraviolenza del brutal può sembrare un azzardo, eppure i Nile ce l’hanno fatta. E Karl Sanders ha così potuto mettere in note le sue ossessioni sull’antico Egitto. “In Their Darkened Shrines” è il loro disco più pomposo, magniloquente e barocco, nel quale la fusione fra sinfonismo colossale e brutalità metallica risulta perfetta.
Zu – Igneo (2002). L’ultimo “Carboniferous” è ancor più feroce e visionario, ma è con “Igneo” che gli Zu edificano il loro inimitabile suono. Jazzcore, free jazz, post rock, punk e metal triturati in un tour de force fragoroso e vivacissimo. Fra John Zorn e Slayer. Fra i gruppi italiani più preparati e interessanti degli ultimi anni, tant’è vero che del loro valore se ne sono accorti anche all’estero.
Xasthur – Nocturnal Poisoning (2002). Il merito maggiore di Malefic è stato quello di sdoganare il black metal al pubblico alternative, e di portarlo all’attenzione di etichette ‘cool’ quali Southern Lord e Hydra Head. Oltre a questo, “Nocturnal Poisoning” è un album riuscito anche sotto il profilo strettamente musicale. Un suono sotterraneo e tenebroso, che sembra provenire da una caverna, e che rielabora efficacemente la lezione di Burzum.
Down – II: A Bustle In Your Hedgerow (2002). Il supergruppo di Phil Anselmo ha avuto il merito, insieme ai Black Label Society di Zakk Wylde, di rispolverare il southern rock e il vecchio orgoglio redneck e di fonderlo con il doom e le distorsioni del metal contemporaneo. L’ha fatto, però, in modo ancor più convincente rispetto al barbuto guitar hero. Per questo parliamo dei Down e di quello che è il loro lavoro più significativo.
Meshuggah – Nothing (2002). Con “Nothing” i Meshuggah eliminano definitivamente quel barlume di umanità che ancora resisteva nella loro musica, e si fan tutt’uno con l’estetica della macchina: ascoltandolo si ha l’impressione di esser stritolati fra gli ingranaggi di qualche fabbrica aliena, soggiogati nella mente e deprivati della personalità. Un viaggio in un girone dantesco dell’anno tremila, fra colate d’acciaio e stridor di presse. Un muro di suono invalicabile, senza crepe né appigli. Inquietante capolavoro.
In Flames – Reroute To Remain (2002). Groove irresistibile in un lavoro che dimostra come si possa uscire dall’underground con la testa altissima. Molti hanno storto il naso, ma per una band che faceva swedish death negli anni novanta, uscire con un disco simile è ulteriore motivo di vanto. Calcolatori spietati.
Killswitch Engage – Alive Or Just Breathing (2002). Un manifesto del metalcore, un lavoro di livello ineguagliato negli anni seguire. Il trend sarà (stato) derivativo quanto vi pare, ma ha segnato un’altra generazione di ragazzi, magari solo negli States. My Last Serenade è un inno che ha fatto piangere molti omaccioni hardcore.
Sunn 0))) – White 1 (2003). Il drone l’avevano già inventato gli Earth negli anni Novanta, ma nessuno se li era filati. Poi sono arrivati Greg Anderson e Stephen O’Malley, così le infinite vibrazioni e le basse frequenze sono passate sulla bocca di tutti. Merito dei Sunn 0))) e dei loro primi dischi, fra i quali va segnalato questo per la presenza di Julian Cope nell’allucinata recitazione druidica di “My Wall”.
The Hospitals – The Hospitals (2003). Se oggi si parla di weird – garage, shitgaze e altre amenità del genere, gran parte del merito è imputabile al duo composto da Adam Stonehouse (batteria, voce) e Roddy Meyer (chitarra). I dischi successivi destruttureranno maggiormente il suono, ma nell’esordio c’è già tutta la loro arte. Garage – noise supersonico, fatto di urla scomposte, chitarra rantolante e batteria trovata da uno sfasciacarrozze. Commovente.
Altro – Prodotto (2004). Possono quattro parole distruggerti l’anima? Eccovi serviti. Un disco cortissimo e tirato. Il punk non è morto. Ora è un altro-punk. Si urla sempre, ma per i sentimenti e le emozioni personali.
Isis – Panopticon (2004). Il post hardcore metalloso dei Neurosis ha un amplesso eccezionale con il post rock. E gli allievi superano i maestri del doom-apocalittico. Questo è un viaggio psichedelico, tormentato ed oscuro, ricco di intuizioni, che non ha avuto rivali in tutta la decade.
Necrophagist – Epitaph (2004). Lavoro assolutamente imperdibile e molto poco noto, strutture debitrici di Death e Morbid Angel per un incredibile viaggio nel regno del death metal supertecnico al servizio della canzone singola. Disco necessario per gli appassionati e da evitare per chi crede di essere in grado di suonare alla perfezione uno strumento in ambito estremo.