L’unica vera Rockstar vivente: auguri Axl Rose

Da che mondo è mondo, la mitologia rock’n’roll si è eretta su basi musicali, comportamentali e iconografiche ben precise, sul desiderio di unire le masse e condividere messaggi di diverso stampo (più o meno condivisibile dalla massa), ma indubbiamente anche sul concetto di divisione. A partire dalla madre di tutte le rivalità, quella tra Beatles e Stones, la storia della musica popolare è infatti disseminata di binomi che, in fin dei conti, servivano all’industria discografica per vendere molti dischi di entrambe le fazioni in lotta.

È noto infatti che, nella maggior parte dei casi, i protagonisti di quelle rivalità fossero invece spesso grandi amici. Sappiamo anche che il mondo si divide tra chi non ha visto Bruce Springsteen dal vivo e chi lo abbia fatto e su questa falsa riga potremmo andare avanti per settimane in un elenco che, in fin dei conti, avrebbe pochissimo senso. La questione invece è un’altra: terminato il contesto storico in cui quelle rivalità erano nate, gli animi in genere tendono a calmarsi: il punk di cinquant’anni forse ti dirà ancora che odia i Pink Floyd, mentre quello di venticinque, probabilmente, dopo “Nevermind The Bollocks” potrebbe passare a “Dark Side Of The Moon” senza soluzione di continuità. Uno dei pochissimi casi di personaggio pubblico in grado di generare costantemente astio non appena il suo nome spunti in qualsiasi tavolata di amici, a oggi, resta quello di Axl Rose.

Il cinquantacinquesimo compleanno del frontman dei ritrovati Guns N’ Roses (ricordiamo comunque sempre che la band non si è mai sciolta), ci dà l’occasione per riflettere su una delle figure più iconiche, ma anche più criticate e, perché no, sottovalutate non solo degli ultimi trent’anni di rock, ma della storia in generale. Sì, perché Axl non è il cazzone violento, sbruffone e senza talento che in troppi dipingono da anni, ma è semplicemente l’ultimo rampollo di una stirpe che prima di lui aveva visto incendiare i palchi gente come Mick Jagger (anche se sappiamo perfettamente chi sia la rockstar degli Stones) prima, e successivamente, in modo ancora più lapalissiano, gli Aerosmith più tossici e non imborghesiti da MTV. Quello che a molti riesce difficile ammettere, ma che tutti sanno, è che Axl abbia scritto alcune delle pagine più belle del periodo a cavallo tra la fine degli anni ottanta e il decennio del grunge e che alla fine i suoi testi non erano poi così distanti dalle tematiche della Generazione X, quanto meno non tutti.

Sappiamo anche che fisicamente non sia più quello del 1992, ma la cosa sembra l’ennesimo bluff messo in piedi per non parlare mai del lato artistico della faccenda. Quale folle ha preteso certe cose da altri artisti di quasi sessant’anni? Che negli ultimi dieci anni si sia perso più tempo a parlare delle sue dimensioni che della sua musica resta comunque triste, anche se lui stesso, con dichiarazioni avventate, colpi di scena e quant’altro ha contribuito spesso a questo processo, mettendo spesso in difficoltà i suoi stessi fan.  Rose, così come la band di cui è da sempre il leader, per troppo tempo è stato considerato un fenomeno da baraccone, viziato e rissoso, baciato dalla fortuna al momento giusto della propria vita. Persino i milioni di fan della band al mondo, negli ultimi sette otto anni, hanno finito per schierarsi quasi all’unanimità dalla parte degli altri membri storici del gruppo, relegando Axl a mero possessore del moniker o poco più. Salvo poi salire tutti sul carro del vincitore al momento della tanto sognata riconciliazione.

La verità è che Axl è davvero l’ultimo esemplare di ciò che chiunque ami questo circo definisce rockstar. Pensateci: è bipolare, ha avuto un’infanzia fatta di privazioni, abusi e amenità del genere. Si è fatto come se non ci fosse stato un domani ogni giorno per cinque anni, fino a quando non era nemmeno più in grado di capire chi lo circondasse, chi gli volesse bene o lo stesse semplicemente utilizzando per fini personali. Ma soprattutto, ha scritto dei brani che, analizzati senza pensarlo in mutande e chiodo sul palco, spesso risultano tanto decadenti quanto poetici. Tutte cose che, se stessimo parlando di Kurt Cobain, per esempio, ne aumenterebbero l’aura di santità e tragicità. Invece no, Axl è solo un ciccione che ha mandato a fare in culo il gruppo più importante degli anni ottanta. Troppo semplice.
Diciamoci la verità, lo stesso Slash, musicista non dotatissimo ma in possesso di un gusto e di una presenza scenica magnifici, senza Axl vale un terzo. Lo dimostrano più della metà delle cose pubblicate in proprio, anche nel recente momento di gloria insieme a Myles Kennedy. A lui vanno date delle canzoni su cui ricamare, a cui aggiungere degli assoli (di cui resta uno degli ultimi innovatori viventi) e gli va fatta inarcare la schiena. Punto. Il resto, anche oggi, lo fa e lo farà sempre Axl. Basta semplicemente guardarlo. Il suo corpo, la sua voce (per altro tornata a livelli mostruosi), oggi dicono ancora più di allora, perché ancora più tragici.

Lo stesso “Chinese Democracy“, deriso a prescindere solo perché pubblicato dopo quindici anni, è uno degli album rock migliori degli anni duemila e, anno dopo anno, sono sempre di più quelli che non si vergognano di rivalutarlo completamente. Lo stesso Slash lo ha sempre considerato un ottimo disco (e oggi è costretto a suonarne i brani). Ci sono album stupendi completamente non capiti all’epoca dell’uscita o ripudiati a prescindere. Quando i Metallica e Lou Reed pubblicarono lo sconcertante  “Lulu”, David Bowie chiamò Laurie Anderson dicendole che lo avrebbero capito vent’anni dopo. Ecco, credo che anche per “Chinese Democracy” possa valere lo stesso discorso. Ebbene sì, io sto ancora dalla parte di Axl, perché da sempre sono convinto che sia la parte più irrazionale e malata a far entrare una band nella storia e non una sublime parte strumentale che però alla mia vita non aggiunge una virgola. Lennon ha reso immortali i Beatles, così come Roger Waters e prima di lui Syd Barrett hanno fatto con i Pink Floyd. Gli altri sono ottimi esecutori e li lascio volentieri a voi.
E ora mandatemi pure all’inferno.

Luca Garrò