Revolver compie 50 anni. Il settimo album dei Beatles veniva pubblicato ufficialmente in Inghilterra il 5 agosto 1966, in piena estate, dopo quasi quattro mesi di registrazioni in studio e a otto mesi di distanza dal precedente “Rubber Soul”. Contro ogni legge della quotidiana industria discografica, i Beatles sfornavano album al ritmo di panettieri della musica.
La band di Liverpool aveva dato ufficiosamente l’addio ai concerti dal vivo, satura dell’entusiasmo troppo esagitato della Beatlemania, e il 29 agosto dello stesso anno avrebbe tenuto il suo ultimo live a San Francisco per impegni contrattuali pregressi. “Revolver” è figlio multipartorito di un momento di svolta impregnato di sperimentazioni e curiosità; si stava aprendo quella che sarebbe stata definita a posteriori “la seconda era dei Beatles”, ma in quel momento avrebbe scioccato rapidamente più di qualche sfegatato seguace.
A questo punto devo fare una premessa scontata: sono una fan dei Beatles. Una grande fan. Meglio, un’adepta: nel mio laicismo al limite dell’ateismo, i Beatles occupano la posizione che si darebbe ad un qualunque dio, solo che io sono molto più tollerante dei fondamentalisti religiosi. Accetto analisi e controanalisi alle leggende metropolitane sui Beatles (come gli articoloni a cadenza annuale sulla morte di Paul McCartney proprio nel 1966), posso sorridere e annuire quando mi indicate che Ringo Starr è stato il più cool degli sfigati, ma non transigo lo stesso. I Beatles sono un dogma aprioristico. Le loro canzoni sono filosofie di vita.
“Revolver” è uno dei più grandi dischi della storia della musica e su questo non si discute. Non si discute in generale: è solo il disco che apre con “Taxman” e chiude con “Tomorrow Never Knows“, alfa e omega di quello che è stato l’ultimo momento di vera coesione del gruppo britannico, e contiene al suo interno i primi segnali delle espressioni individuali dei Beatles. C’è l’ampia rilevanza data a George Harrison, immerso in un misticismo orientale che venne tradotto in nuovi suoni e strumenti (la tabla di “Love You To“), ci sono gli esperimenti psichedelici di John Lennon in “I’m Only Sleeping” con il nastro delle chitarre girato al contrario, ci sono le melodie classiche e senza tempo di Paul McCartney che scrive “Eleanor Rigby” per un quartetto d’archi, sovvertendo le regole delle band poprock, e che firma una delle canzoni d’amore più strazianti di sempre, “For No One”.
“Revolver” dura 34 minuti e 59 secondi, una sciocchezza rispetto ad album di tante altre band successive. Sono quattordici pezzi che in generale non superano mai i 3 minuti, qualcosa che va in contrasto con certe composizioni psichedeliche degli anni a venire, tirate allo stremo. In “Revolver” ci sono tutte le anime dei Beatles: i primi contrasti interni, il seme di una certa maturità compositiva, le forti individualità che iniziano a sbocciare, la voglia di cazzeggio e la serietà, l’esser presi sul serio e al tempo stesso sconfessarsi, la messa in ridicolo della società d’Inghilterra, la ricerca di qualcosa dentro di sé, lo show business da cui scappare ma dal quale attingere. Poi c’è la copertina innovativa di Klaus Voorman, il bassista tedesco amico della band dai tempi di Amburgo, che fu ispirato dai capelli folti dei Quattro Beatles per realizzarla con un collage di foto e disegni a china, consegnandola alla storia.
La prima volta che lo ascolti sembra un disco facile, zeppo di belle melodie pop e arrangiamenti interessanti. “Revolver” è invece subdolo, solo apparentemente semplice: ti resta un frammento di canzone in testa e lo devi decifrare perché quell’accordo non ti torna, o quell’intreccio di voci ha qualcosa che devi capire, o il suono della chitarra, del basso, degli altri infiniti strumenti utilizzati sembra pizzicarti dentro. Ti frega, “Revolver”. Perché pensi che sia il “classico disco dei Beatles” ma per diventare classico ci ha messo il suo tempo, non è che ci è nato fatto e finito.
“Revolver” è sopravvissuto ai revisionismi, alle analisi, a gente come Scaruffi. Al progressive, alla disco dance, all’elettronica, ai sintetizzatori e a quanto altro. È una sintesi degli anni Sessanta al loro meglio, con fiati in stile Motown soul, inserimenti di musica classica, riff come lance in testa, accenni psychorock, ballate struggenti. A tenerlo in equilibrio ci sono, ovviamente, una classe e una fantasia innegabili.
Mi è venuta voglia di riascoltarlo e lustrare i miei dogmi sui Quattro, in modo da essere pronta alle prossime discussioni sui “dischi più belli della storia”, dove “Revolver” occupa un posto fondamentale. Ecco, magari potrei essere d’accordo sull’utilità effettiva di un pezzo come “Yellow Submarine”, la canzonetta cantata da Ringo con i cori di Brian Jones e Marianne Faithfull (tra gli altri), ma ho la risposta pronta: siete sicuri di essere stati immunizzati dal “parapapà -papàpapà- paraparàparaparaparà del trombone di “Yellow Submarine”?
Arianna Galati