Per una manciata di anni, ascoltare metal significava ascoltare il power metal europeo. Crossover, Korn, nu metal e Marilyn Manson erano i nemici. Doppiacassa a manetta, riff veloci, assolazzi, cantato acuto e immaginario epico erano la fede. Ci sarà un motivo se improvvisamente i Manowar (sfanculati in patria praticamente da sempre) si ritrovarono ad essere considerati gli unici veri defenders of the faith e fare da headliner ai festival al pari dei Metallica.
Il genere ha avuto la sua parabola temporale circa da metà anni ’80 al 2000, regalando un manipolo di classici ma anche tanta roba invecchiata malino. Gli Helloween codificarono per primi il genere, prendendo però mazzate per questioni extramusicali e non riuscendo mai a fare il salto verso il grande pubblico. Tristemente, la situazione dei media e del mercato nei primi ’90 relegò nell’ombra parecchie band, diventate sicuramente eroi per i metallari, ma che avrebbero meritato un pubblico molto più vasto. In quegli anni i rinati Helloween, Gamma Ray, Stratovarius, Angra erano in grado di pubblicare dischi di qualità rara che negli anni a venire saranno poi scimmiottati e copiati letteralmente da band di giovinetti in grado di vivere di rendita.
In questo mucchio selvaggio una band in particolare faceva testo a parte: i Blind Guardian. Partiti sotto l’ala protettiva di Kai Hansen (fondatore di Helloween e Gamma Ray), crebbero costantemente, riuscendo ad offrire un sound decisamente personale. Quattro amici crucchi di Krefeld, inseparabili, lontani dall’estetica e dalle paturnie delle rockstar, fissati in egual misura per Stephen King e Tolkien (e un sacco di altra letteratura fantasy), decisamente più fan del thrash dei Metallica e della Bay Area che dell’heavy metal inglese di Iron Maiden e Judas Priest, innamorati delle soluzioni melodiche degli Uriah Heep e delle strutture intricate dei Queen epic fantasy degli esordi.
Non a caso per il disco del 1995, Imaginations from the Other Side, puntarono sul produttore svedese Flemming Rasmussen: i suoi strati di chitarre sovraincise portarono al loro disco più spaccaossa, dove il sound dei Metallica ’84-’86 si sposa a tematiche fantasy e soluzioni persino più progressive. Ma la band aveva piani ben più ambiziosi e investì parecchio assoldando nella squadra i massimi guru del metal europeo come Piet Sielk e Charles Bauerfeind (pensate ad un disco del periodo, lui ci ha lavorato) e prendendo un nuovo bassista in modo da lasciare il cantante Hansi Kürsch concentrato sulle linee vocali. Il loro progetto, grandioso ma cauto al tempo stesso: musicare il Silmarillion di J.R.R. Tolkien. Un’opera colossale, sicuramente, ma più facilmente gestibile rispetto al blasonato Signore degli Anelli.
https://www.youtube.com/watch?v=IoyToHOWSV8
Ora, prima di evitare incomprensioni, meglio precisare una cosa per non lasciare adito a dubbi: questo disco è un fottuto cazzo di capolavoro, di composizione, di produzione, di realizzazione… e tutti gli altri ‘concept’ e storielle del mago che possono venire a proporvi potete tranquillamente rispedirle al mittente direttamente su per il culo. Stacca esperimenti simili di km, ha una classe, una maturità e un livello di perfezione ineguagliati. Suona fresco e potente come se fosse stato registrato domani e dimenticatevi ragazze che cantano vestite da elfi o cose simili, non è il caso.
Molti blaterano di “bilanciare le orchestrazioni con la musica pesante” riferendosi a midi da videogame con una chitarra sopra, qua siamo in un altro campionato. Con la scusa di musicare un’opera antologica i Bardi riescono a produrre un corpo di canzoni (e pure validi intermezzi) che formano una struttura coesa senza scadere nell’essere una stucchevole ed eccessivamente didascalica metal opera. Pur avendo dei sasselli necessari (su tutte la celeberrima “Mirror Mirror”), i pezzi in sé sono delle mini-opere, gioiellini di power-progressive ispirati alla grande dai Queen degli esordi, dagli Yes, non hanno bisogno di durate siderali anzi tirano fuori dei concentrati ispirati ed emozionanti. André Olbrich, il chitarrista solista, esprime qui al massimo il suo attacco sonoro costantemente melodico senza finire MAI nel piripiri (o virtuosismo segaiolo, se preferite). La chitarra ritmica è affare di Marcus Siepen, sempre solido e quadratissimo, mentre André ha margine per tessere costantemente melodie memorabili. Ma l’evoluzione più grande l’ha compiuta Hansi: è riduttivo dire che ‘ha imparato a cantare’ e ‘ha smesso di urlare e basta’; sfodera una prova al limite della doppia personalità con una capacità interpretativa mai raggiunta fino a quel momento (come riesca a passare fluidamente dal miele alla sega elettrica in “Nightfall” è incredibile). Bravi tutti loro anche in veste di co-produttori: immagino che Flemming più che stratificare chitarre non abbia fatto, non è dato sapere quanto sia farina del sacco di Bauerfeind o cosa, sta di fatto che la colata di strumenti nuovi (soprattutto nelle percussioni) offre una nuova profondità al sound e porta il tutto al ad un livello superiore. Ok, il basso sparisce un po’ nel mix ma fanculo il basso. Chiaramente ottime canzoni che stanno in piedi anche da sole: “Into the Storm”, “Time Stands Still”, “When Sorrow Sang”. Ci sono i ritornelli da cantare a squarciagola, la doppiacassa con cui scapocciare, le vibrazioni epiche che ti mettono la voglia di tirare le spadate ai vicini di casa. E’ un viaggio dentro una Porsche 918 Spyder per le strade della Germania: ci si ferma ad ammirare i castelli della Baviera, si costeggiano laghi, si attraversa la foresta Nera e poi si può accelerare senza limiti sull’Autobahn.
Il guaio del disco è che è davvero bello bello in maniera impossibile, ammazzando tutta la concorrenza. Nel ’98 la gente perdeva la testa per i Rhapsody, pure, ma pochi dischi sono diventati immortali. Se ne dovete recuperare uno, recuperate questo.
Dove “Imaginations from the Other Side” è stato l’apice metallaro dei Blind Guardian, questo è stato sicuramente l’apice epico. Sono due bestie diverse, entrambe letali. I bardi stessi non sono mai riusciti a superarsi: dal ’98 fino al 2002 sono stati assolutamente al centro dell’attenzione, arrivando ad avere persino un festival in Germania tutto loro. Purtroppo il disco successivo, incredibilmente atteso, sarà un polpettone a volte troppo indigesto…e finiranno poi per tornare su lidi più sicuri ma già sentiti. Rimangono tuttora attivi e una garanzia per i fans più oltranzisti, ma con “Nightfall in Middle-Earth” avrebbero di sicuro meritato riconoscimenti più importanti.
Marco Brambilla