È il 31 maggio 2013, e lo Stadio Euganeo di Padova è gremito. Quarantamila vagabondi assistono al concerto di Bruce Springsteen. Al termine di “Spirit in the Night” il Boss raccoglie come da tradizione alcuni cartelli dal pubblico, inneggianti richieste di brani. Uno in particolare, non me lo scorderò mai. “BORN TO RUN CHANGED MY LIFE” [Born to Run mi ha cambiato la vita], legge Springsteen ad alta voce. “Yeah, mine too” [Sì, anche a me] aggiunge poi sommessamente, come se quella laconica frase fosse una riflessione personale. Un istante incredibile, difficile da spiegare. Vero, come lo sono le sue canzoni.
Sono passati due anni da quella notte, ma ancora ora mentre scrivo ascoltando “Born to Run” mi si rizzano i peli sulle braccia a pensarci. Fa uno strano effetto scrivere di quest’episodio, vederlo nero su bianco. Come se stessi raccontando qualcosa di tremendamente privato, di personale. Un momento condiviso tra me nel pit e lui sul palco, gli altri quarantamila ridotti a semplice comparse. Fantasmi, brucianti nelle loro Chevrolets.
Cos’è “Born to Run”? Cosa ha significato in questi ultimi quarant’anni per chi lo ascolta? Le risposte facili a queste domande sono quelle prettamente accademiche. È un pezzo di storia del rock – senza alcun dubbio; è stato l’LP che ha sancito il successo di Bruce Springsteen, affermandolo come presente del rock’n’roll e non come un “nuovo Dylan”; e così via. Le risposte difficili invece sono altre, quelle che contano, e forse ognuno ha le sue.
Non ricordo una data precisa, ma ho scoperto Bruce Springsteen quando avevo circa quindici anni. All’epoca era appena uscito “Magic”, che si aggiungeva alla completa collezione di dischi del Boss di mio padre. “Magic” mi piacque molto ma “Born to Run” fu una bomba, non avevo mai ascoltato nulla del genere. Le canzoni, e soprattutto i testi, avevano un’intensità che non avevo mai sperimentato; la mia percezione della musica, e i miei gusti, cambiarono per sempre. Parafrasando Italo Calvino, “Un classico è un disco che non ha mai finito di dire quello che ha da dire” e “Born to Run” rientra in pieno in questa categoria, per ragioni che non hanno nulla a che vedere con sciocchezze come le classifiche di vendita. Amo questo disco, e ne centellino l’ascolto il più possibile: lo ascolto volutamente poche volte l’anno. E ogni volta ci ritrovo un’emozione conosciuta, e altre sconosciute; ci trovo sempre qualcosa. Probabilmente un qualcosa diverso da quello che ci trovavo a quindici anni, diverso da quello che ci troverò a venticinque e tra altri quarant’anni a partire da oggi.
Trovo difficile parlare di questo disco. Per ogni frase scritta, ce ne sono due cancellate. Non trovo un filo, un senso, solo un’esplosione di emozioni. Come si può descrivere cosa si prova ascoltando “Thunder Road”, usando soltanto le parole? Vogliamo parlare dell’assolo di sax di “Jungleland”? “Born to Run” è più che un disco. È un film, ma è anche un luogo. E basta abbassare la puntina sui solchi del vinile per andarci, e ritrovare i protagonisti di quelle canzoni che ci aspettano come vecchi amici. Ho visto davvero il vestito di Mary svolazzare. Ho sentito il suono della porta con la zanzariera sbattere. Ho corso con Terry per le viuzze laterali. Ho visto il Big Man unirsi alla band, e ho guidato per quell’autostrada piena di eroi spezzati.
Alessandro Mela