Cyber Metal: vent’anni di City e di…Remanufacture!

Ormai è sicuro, gli articoli che ne parlano si moltiplicano di giorno in giorno: le macchine prenderanno il sopravvento. Verremo sostituiti dai robot, dalle intelligenze artificiali, sia che il nostro lavoro sia in fabbrica, in banca o in ospedale. Beh, almeno saremo vivi. Forse. Non così roseo appariva il futuro negli anni ’80 (quando le previsioni parlavano di inverno nucleare) o negli anni ’90, quando si fantasticava di uno sterminio futuro da parte delle macchine. Tutta fantascienza ormai scaduta, a pensarci ora, ma l’onda lunga del successo planetario di Terminator 2 si fece sentire anche in campo musicale. Certo, il cyber metal o come diavolo volete chiamare questa deriva dell’ heavy metal, fa ridere solo dal nome ed è decisamente una nicchia…ma include un paio di capolavori che hanno segnato profondamente la musica pesante.

Demanufacture dei Fear Factory e City degli Strapping Young Lad.
Una band Americana, ancora attiva sebbene con una lineup differente, e un progetto di Devin Townsend -pazzo musicista visionario Canadese- che hanno anche avuto reciproche partecipazioni, terreno e ispirazioni comuni, sonorità affini e hanno fatto scapocciare tanta, tantissima gente.

La band californiana partiva dal sound d’assalto del thrash metal, filtrandolo attraverso i componenti di robot assassini. Il cantante Burton C. Bell alternava sbraitate in stile Sepultura a parti vocali melodiche, un’idea che farà la fortuna dei Korn -e molti altri dopo di loro- nella loro riproposizione più smussata e levigata, e condendo i brani di campionamenti industrial e sintetizzatori. Dino Cazares alle chitarre non prendeva neanche in considerazione gli assoli: uomo da ritmiche, possibilmente a mitraglia, piene di stop ‘n go e palmo della mano destra ben adeso alla sua Ibanez 7 corde…senza dimenticare il groove assassino che dal vivo fa passare dal mosh al pogo in un battito di ciglia. Completava l’alchimia la sezione ritmica composta da Christian Olde Wolbers al basso e Raymond Herrera alla batteria: il loro groove, spesso addirittura più vicino alla techno hardcore che al metal, andava di pari passo alla chitarra di Cazares. Gli elementi più distintivi del loro sound sono stati sicuramente la doppiacassa e il rullante sovrapposti alla ritmica della chitarra con precisione chirurgica, con l’utilizzo dei trigger a dare al tutto un feeling meccanico tanto adeguato nella loro musica quanto usato a sproposito in futuro da tutte le band di giovanotti pigri. Una delle poche volte in cui il trigger è stata una precisa scelta stilistica invece che un comodo sotterfugio.

Proprio la batteria apre le danze con la title track: effetti industrial da catena di montaggio, salta dentro il riff di chitarra, ad accompagnare sintetizzatori spaziali e sinistri e poi via si inizia a tirare pugni in faccia. In “Self Bias Resistor” sembra che i Metallica di …And Justice For All siano stati fatti a pezzi e ricomposti come cyborg: il feeling del pezzo è in perfetto equilibrio tra un groove dinamico e la freddezza spietata di musica elettronica…fino ad esplodere in un ritornello a cento all’ora, dove orchestrazioni elettroniche fanno da tappeto al cantato melodico e filtrato che dipinge paesaggi cyberpunk. In tal senso, “Zero Signal” è la versione metal del tema di Terminator 2 Judgment Day e “Hunter Killer” ne è una citazione tout court. Non mancano momenti più melodici come il singolo “Replica” (celebre la rullata iniziale) e la cover straniante e ossessiva di “Dog Day Sunrise”. Ci sono martelli pneumatici come “New Breed” e “Body Hammer”, forse la più heavy metal groovy del lotto, sottofondo adeguato se siete dei marine spaziali con in mano una motosega e un lanciagranate e dovete affrontare un’orda di mutanti. O se avete passato una giornata difficile in ufficio e dovete processare un po’ di stress.

Oh ma che ridere al pensiero di tanti metallari che scapocciavano e saltavano inconsapevoli su ritmiche da gabber. Non a caso nel ’97 il disco uscirà in una seconda versione, chiamata Remanufacture, con dei discussi remix in salsa più elettronica (diciamo che Junkie XL avrà tempo per redimersi…). E un caloroso saluto pure a tutti i videogiocatori che scoprirono la band grazie a Carmageddon, uno dei titoli più violenti e chiacchierati della decade.

Di altra pasta, un ulteriore assalto sonoro, il secondo disco a nome Strapping Young Lad. Ora, ne avessi l’occasione, mi piacerebbe sedermi lì con Devin Townsend e chiederli che CAZZO sia successo lavorando con Steve Vai e vivendo a Los Angeles per ispirarlo e portarlo a comporre City.

La componente più lampante che differenzia i due lavori è il NOISE. Sia per componenti elettroniche, sia per una produzione che riprende in un’ottica malsana lo storico stile “Wall of Sound” di Phil Spector, il disco di Devin Townsend ha uno strato abrasivo di rumore che riempie tutte le frequenze possibili fino a quasi sotterrare gli strumenti stessi. Il groove e i riff metal sono presenti, chiaro, ma qui la fa da padrone un feeling epico e apocalittico che in futuro prenderà il nome di ‘totalitarian’ e farà la felicità di svariate band di black metal ed elettronica estrema.

Devin urla come un disperato e la sua voce è processata in modo da sembrare amplificata per un comizio politico più che per un concerto. Suo compagno di merende in questa devastazione sonora è il batterista Gene Hoglan (noto turnista del metal estremo che suonerà pure con i Fear Factory stessi). “Gene Hoglan è talmente grasso che prima si siede e poi gli montano la batteria intorno”, “Gene Hoglan fa talmente macello che i piatti li suona sia dall’alto verso il basso che dal basso verso l’alto”…ah, che belle le leggende metropolitane nel mondo pre-internet. Gene ha un approccio più vicino al blast-beat del death metal rispetto ad Herrera, ma sa il fatto suo ed è abbastanza versatile da poter seguire tutti i cambi di umore del capobanda (diciamo 50 sfumature di incazzatura pesante).

Quando Devin attacca a cantare in “All Hail The New Flesh” (citazione da Videodrome, uno degli incubi in celluloide del compatriota David Cronenberg), l’influenza dei Fear Factory è chiara…ma se gli americani da ragazzi ascoltavano parecchio i Metallica, Devin il canadese diverso ha seguito più classi della scuola Voivod (altri visionari canadesi). Ma non sono chiare solo le radici, ma anche l’influenza futura: in “Oh My Fucking God” la linea vocale è da Tom Araya degli Slayer sotto psicofarmaci e anfetamine ma è innegabile quanto sembri i System of a Down in anticipo di qualche anno. Quando il groove attacca, ci sono chiari rimanda alla djjjoga dei Ministry con pezzi come “AAA” e “Underneath the Waves”. In mezzo agli schiaffi non mancano episodi “melodici” come il giro di synth di “Room 429”…se per melodia vi va bene una sinistra elegia cantata indossando una camicia di forza in una stanza dalle pareti imbottite.

Parte da leone, pezzo più famoso, tormentone di MTv nelle notti di musica alternativa, l’allucinante “Detox”. Un riff incessante replicato dalla batteria (triplette come se piovesse), Devin che sembra sparare proclami, coro ossessivo campionato in stile Ministry (Hey! You mo’! Hey You mo’! – per anni ho creduto dicesse Hey Come On!, insomma parliamone), strofa con doppiacassa che ci proietta nello spazio mentre Devin svuota i polmoni. Poi il pezzo si incattivisce. Il riff diventa un labirinto, Devin urla tutte le sue paranoie (I was warned/Absolutely numb/No good around people/Everyone knows and watches me) con la doppiacassa sotto incessante, poi ci si schianta contro un muro di noise e ci si rialza accompagnati all’headbanging selvaggio da uno dei riff più figli di puttana del groove metal, fino a quando Devin ci manda tutti affanculo con la cavalcata finale.

Ne avete di materiale da ripassare prima di essere assoggettati ai nuovi signori e padroni…

Marco Brambilla