Vent’anni dall’uscita di “This Is A Call”, il primo album dei Foo Fighters di Dave Grohl, che allora era agli occhi tutti “il batterista dei Nirvana” e che oggi è al vertice della catena alimentare del rock. Ma cosa voleva dire nel 1995 l’uscita di questo disco, oggi un classico? Due punti di vista diversi, offerti da chi due decenni fa si ritrovò con l’album tra le mani.
1. “L’Araba Fenice di Dave Grohl” – Luca Freddi
1994. I Nirvana sono quella cosa lì in quel momento preciso della vita di un ventunenne che vede tutto nero come la pece. Non sono un mito, non sono un simbolo, non sono un’effige, sono una cosa che scorre parallela. Kurt Cobain muore e neanch’io mi sento troppo bene in generale.
1995. Mi regalano il disco del nuovo gruppo di Dave Grohl. Foo Fighters erano, per l’aviazione americana, i bizzarri fenomeni di luce nel cielo. In realtà non c’è ancora un gruppo vero e proprio perchè tutte le parti le ha suonate Grohl in studio. A parte Gregg Dulli che mette la sua chitarra in un pezzo. Dietro il bancone della regia si siede il produttore di fiducia Barrett Jones. L’album è stato registrato in poco più di una settimana già l’anno prima. Appena dopo la perdita di Cobain sembrava difficile azzardare che il preciso e sorridente drummer avrebbe in poco tempo intrapreso una nuova carriera musicale di successo. Di un successo ancora più vasto rispetto a quello ottenuto dai Nirvana. Intanto in giro si dice che Novoselic voglia buttarsi in politica. E che non sarà coinvolto minimamente nel progetto Foo Fighters.
Il disco non ha un titolo e sembra in qualche modo ancora in mezzo al suono-Nirvana. A volte parrebbe un disco con delle outtake messe a bagno nell’acqua. Eviscerate. A parte una vena pop dentro scorre a tratti la carica andrenalinica e la malinconia grunge. Dave Grohl cerca di rimettere insieme i cocci della sua vita. Forse cerca di dire che non è solo un gregario. Forse il difetto principale del disco è una certa mancanza d’identità. Ma l’intento di Grohl non è mai stato quello di rivoluzionare il rock. Non lo sarà mai anche in futuro.
Quello che proprio non c’è nelle dodici tracce è quell’urgenza, quella violenza e disperazione presenti nel leader dei Nirvana. La creatura di Dave Grohl invece è una perfetta macchina commerciale che sintetizza fin da subito quello a cui tende: voglia di successo e doti di leadership. Nel disco Grohl si incazza con chi specula sulla morte di Cobain. “I’ll stick around” è liberatorio. In quel momento sembra che, se fosse capitata l’occasione, tutti avrebbero strangolato a mani nude Courtney Love.
Arruolato il turnista Pat Smear alla chitarra e due ex-componenti dei Sunny Day Real Estate, ecco la band dal vivo, che si presenta per la prima volta in Italia, a distanza di pochi mesi dalla pubblicazione. Vado a San Colombano al Lambro come per vedere un pezzo di qualcosa che si è rotto. Per ricordare che qualcosa si è rotto. I Nirvana dal vivo l’anno prima erano stati come sotto narcotici. Uno spettacolo un po’ malinconico da vedere dietro a un vetro. Quella sera i Foo Fighters sono l’araba fenice di Grohl. Non mi sono più davvero interessato al gruppo dalla fine del 1995.
Luca Freddi
2. “Lo comprammo tutti, di nascosto casomai” – Mathias Marchioni
Avere vent’anni, oggi. Io ne avevo 16 l’aprile del ’94. Sull’autobus nr.21 che mi trascinava a scuola, zeppo di studenti assonnati, sembrava, con gli occhi di oggi, di essere immersi in un’enorme bacheca di Facebook parlante: parole a caso, pensieri espressi a voce alta per farsi sentire, tanto tantissimo pressapochismo.
Tutti comunque, improvvisamente fan di lunga data dei Nirvana.
La botta fu grossa: il gruppo era appena passato dall’Italia per il tour di “In Utero”, noi eravamo ancora freschi di quel concerto (brutto), l’ultimo nella nostra terra, il primo per moltissimi di noi.
Il pensiero che andava per la maggiore, almeno nel microcosmo che frequentavo in quei giorni, era un pensiero di rabbia nei confronti di Kurt, così come prima era stato mal digerito l’inserimento di Pat Smear come turnista e così come il ruolo sempre più preponderante di Courtney Love nelle decisioni del gruppo di Seattle faceva incazzare parecchio.
Insomma, io mi stavo già innamorando degli Smashing Pumpkins, e all’epoca schierarsi da una parte voleva dire non far parte più dell’altra parte e di conseguenza avere zero voce in capitolo, ma improvvisamente il pensiero unico di tutti si unì, pochi mesi dopo, in quel 1995, sotto la bandiera del disgusto nell’apprendere dell’uscita del cd del nuovo gruppo “dell’ex batterista dei Nirvana”. Un affronto. Una speculazione solo per fare su soldi e chi più ne ha più ne metta.
Però ce lo comprammo tutti, di nascosto casomai, probabilmente andandolo a prendere nel negozio di dischi meno in vista della città, e lo ascoltammo molto attentamente anzi, skippando al primo ascolto tutte le tracce dopo pochi secondi e così anche per gli ascolti successivi, perché tutti eravamo attentamente alla ricerca di un vago riferimento a quelle sonorità che volevamo risentire. Non trovandole, come era logico, se non sforzandosi.
Quando un pezzo come “Alone” sembrava darci speranza, riprendendo le sonorità più ruvide dalle quali eravamo rimasti orfani, era la voce a non convincere; quando incontravi tracce come “Big Me” o “Good Grief” inorridivi, con “Floaty” toglievi direttamente il cd dal lettore.
Il futuro “classico” “This Is a Call” racchiudeva bene quello che sarebbero stati di lì agli anni a venire i Foo Fighters, un gruppo che ha una sua identità ben precisa, che sforna pezzi della madonna con un frontman che già in piena epoca Nirvana non solo aveva voglia di fare altro, ma sapeva già come lo avrebbe fatto dannatamente bene.
Allora furono ventimila lire buttate nel cesso, vent’anni dopo è stato l’inizio di una delle più grandi rock band americane e di un frontman che riesce a smuovere, senza mai abusare del passato, milioni di fan in tutto il mondo.
Mathias Marchioni