A momenti manca poco che la lap dance venga ammessa come disciplina olimpica…capita a fagiolo il trentennale dell’album che per primo sdoganò al grande pubblico quest’arte bellissima e troppo spesso vittima di maldicenze. “Girls Girls Girls“, quarto disco dei Motley Crue, è un adorabile disastro. Deboluccio per stessa ammissione della band, nella sua imperfezione riesce a essere testimonianza cristallina del momento più matto, malato, drogato, autodistruttivo degli americani.
Vista la sequela di successi discografici e i milioni in entrata, difficile riuscire a tenere tranquille quelle quattro teste di cazzo dei Motley. Finché riuscirono a essere funzionali e concentrati però, portarono dei risultati concreti: abbandonato il makeup post-glam di Theater of Pain (il predecessore che regalò gioie in classifica con la ballata “Home Sweet Home”), la band rispolverò le influenze più blues e hard rock per raccontarci didascalicamente dove finissero i loro soldi (motociclette, droga e strip club).
Se l’anno precedente (1986) Joe Cocker con “You Can Leave Your Hat On” aveva portato alla ribalta lo spogliarello, inteso come giochino sexy tra due nel salotto di casa, la title track dei Motley rende pubblica la gran tradizione USA della lap dance, nominando direttamente localacci come il Tropicana e Dollhouse. Il pezzo è un inno, e con il suo riff se la gioca con “Pour Some Sugar On Me” dei Def Leppard per il podio di canzone definitiva da spogliarello (professionistico, a pagamento). Poco male che il chitarrista Mick Mars fosse talmente bevuto da cadere dallo sgabello durante la registrazione dell’assolo finale.
“Wild Side”, uno dei loro brani più celebri, è un’ode al lato più oscuro di L.A., fatto di criminalità e degrado: c’è letteralmente spremuto dentro il meglio che potessero dare in quel momento, addirittura con Nikki Sixx e Tommy Lee a sperimentare con l’elettronica e il digitale per irrobustire il riff portante. Il pezzo è un treno in corsa, che giova pure della nuova formazione ‘alla Rolling Stones’ (nei sogni di Nikki Sixx) arricchita da due coriste.
Si fa davvero fatica a ricordare altro. La band era costantemente distratta (come ben documentato da memorie come The Dirt e The Heroin Diaries) da ‘attività extramusicali’, con Mick Mars perennemente ubriaco e raggirato da una delle coriste, Tommy Lee perso nella storia d’amore dell’anno con l’attrice Heather Locklear, Nikki Sixx (il cervello della band-in teoria) interrotto continuamente da Vanity (ex di Prince) in costante bisogno di pere e Vince Neil a piede libero nonostante la condanna per omicidio colposo…probabilmente occupato a scoparsi tutto lo scopabile.
Sixx era talmente preso dalla sua scimmia per l’eroina che non si presentò neanche al funerale di sua nonna, la figura più importante durante la sua gioventù, finendo per dedicarle quella sorta di intermezzo/mezza ballata (ma nel senso proprio letterale, dato che dura un minuto e spicci) di “Nona”. Una ballata almeno la finirono, “You’re All I Need”, dove alle mancanze musicali sopperirono evitando il lattemiele e cantando di una storia d’amore tanto malata da sfociare nella tragedia (grazie anche al video creato ad arte per i boccaloni di MTv).
E poi non c’è molto altro. Ma per davvero: non furono nemmeno in grado di consegnare 10 pezzi fatti e finiti e la casa discografica fu costretta a chiudere il disco con una versione live della cover di “Jailhouse Rock” registrata durante il precedente tour. Ci si ricorda qualcosa di orecchiabile come “Sumthin’ For Nuthin” (uno stile che riprenderanno più efficacemente in seguito), certe perle di Vince Neil che fanno sempre piacere come “Lei ha solo quindici anni/Lei è la ragione – la ragione per cui non posso dormire/Tu dici illegale/Io dico che la legalità non è mai stato il mio forte” e pure qualche sonorità in “Dancin’ On Glass” purtroppo non sfruttata a dovere.
Eppure questa pochezza è parte integrante di un affresco che ha affascinato 4 milioni di ascoltatori paganti, creando tanto fastidio ai piani alti da finire vittima di un magheggio pur di non farlo apparire al numero uno della classifica (fecero apparire con un gioco di prestigio contabile Whitney Houston). “Girls Girls Girls” è il manifesto di un’era, tanto povera di contenuti quanto ricca di divertimento, è l’archetipo del sogno da rockstar asciugato dalle velleità artistiche e ridotto ai bisogni elementari: il rombo di un motore, la cocaina, la figa.
Ad aumentare il folklore: Tommy Lee non riesce a raccontare molto, perché non ricorda un cazzo. Quel periodo fu per lui “a blur of insanity”, da cui tra le storie che emergono ci sono l’invenzione della polvere zombie (un letale mix di cocaina e halcion che immobilizzava il corpo rendendo intanto la mente iperattiva) e un management così stanco della fissa della band per gli strip-club da creare apposta una pianificazione che portasse il tour nelle arene più distanti possibile da donne nude a pagamento.
Dopo una devastante tournè americana la band dovette cancellare il tour europeo per ripigliarsi (ed evitare di morire, tipo). Questo creò una sorta di frattura col pubblico europeo, ma permise loro di ripulirsi il tempo necessario per confezionare Dr. Feelgood…ma questa è un’altra storia.
Marco Brambilla