Green Day, dieci anni dall’uscita di “American Idiot”

Dieci anni fa usciva “American Idiot”, dei Green Day. Capolavoro non esattamente indiscusso. La bomba, anzi, la granata, sganciata dalla band americana sul mercato musicale rimane in classifica per ben 102 settimane, cambiando per sempre la storia della band, e anche la mia. Comprato illegalmente (dopo dieci anni non sarò perseguibile vero?) a una bancarella sulla spiaggia,  quella copertina verdognola – sì, avrebbe dovuto essere nera, ma per quello che l’ho pagato buona grazia che non contenesse le migliori hit di Cristina D’Avena – con  una granata sanguinante stretta in un pugno, mi ispirava parecchio. E la musica era veramente… Esplosiva. Non avevo mai sentito nulla di così potente. Contestualizziamo: avevo undici anni, e sul mio walkman giravano i Nomadi, qualche hit dell’estate di cui fingo di aver dimenticato i titoli e le snervanti melodie, e quando ero in vena di carica “Under My Skin” di Avril Lavigne. Avevo un mondo da scoprire, e “American Idiot” è stato l’inizio di tutto. Di quel disco parlavano in tanti, ma lo capivano in pochi. Questo mi fu chiaro abbastanza presto, perché in quelle tredici tracce c’era di tutto, c’erano storie e emozioni, sfumature che le ragazzine in tempesta ormonale che giravano con il poster di Billie Joe staccato da “Cioè” dubitavo cogliessero. Il termine “concept album” mi era sconosciuto, e forse anche il termine “album” riferito a qualcosa di diverso dalle figurine dei Pokémon, ma quando una voce saggia mi disse che si trattava di <<un disco che racconta una storia, tutte le canzoni sono collegate>> rimasi folgorato dalla genialità della cosa. Un disco che racconta una storia, ci rendiamo conto? Come un film da ascoltare.

Ma che storia? In inglese me la cavavo, ma avevo pur sempre undici anni, e il mio disco taroccato non aveva il booklet con i testi, quindi mi affidavo a  Wikipedia, che mi informava che il disco era una protesta contro la guerra in Iraq, e contro la gestione del Presidente Bush, l’Idiota Americano per eccellenza (secondo i Green Day. Signor Bush non mi mandi la CIA a casa. Scherzavo). Come tutto ciò si legasse alla storia dei protagonisti non mi era chiaro al 100%, ma le canzoni avevano un che di epico. I suoi personaggi erano reali e emblematici allo stesso tempo: St. Jimmy era il figlio di “una troia, e di Edgar Allan Poe”; poi c’era Mary Jane, che ho capito dopo anni essere più probabilmente un riferimento alla Marijuana piuttosto che un personaggio in sé; c’era la ribelle, questa pericolosa ragazza che stringe il cuore del protagonista come una bomba a mano. Che diventa una extraordinary girl, quando il protagonista se ne innamora, per poi passare però alla storia come “Comesichiama”, la “Whatsername” che chiude il disco.

Non è stato amore a prima vista, tra me ed “American Idiot”. Mi succede spesso con i dischi che poi apprezzo moltissimo, quindi penso sia normale. All’inizio sentivo del gran casino, poi delle belle canzoni, ma per sentirle davvero ci ho messo qualche anno. Nel frattempo i Green Day dopo un tour a cui non partecipai per motivi vari (tra cui il fatto che avevo undici anni e aspettavo la mia lettera per Hogwarts invece di andare in giro per concerti), sparirono dalla scena per cinque lunghi anni, in cui si ebbe tutto il tempo di ascoltare e riascoltare ogni traccia. “Wake me up when september ends” era uno dei pezzi più toccanti e anche più trasmessi, questa frase criptica che nessuno sapeva interpretare, finché molti anni dopo lessi da qualche parte che era quello che aveva detto il giovane BJ alla madre dopo la morte del padre. “Svegliami quando finisce settembre”. Brividi.

L’altra canzone che si sentiva ossessivamente per radio all’epoca era il singolo “Boulevard of broken dreams”. Questi due pezzi erano tra i più tranquilli del disco, e quindi adatti a un pubblico più vasto di quello che avrebbe potuto apprezzare “Letterbomb” ad esempio. Credo di aver sentito “Boulevard of broken dreams” troppe volte in questi dieci anni, tanto che oggi se la passano per radio ho un pizzico di fastidio a pelle. Poi ci canto sopra, però comunque mi ha stancato; anche se nel complesso del disco la apprezzo ancora. Vorrei solo che non la mandassero in radio per altri dieci anni, così da darmi l’opportunità di sentirne la mancanza!

“American Idiot” ha dieci anni e io mi sento un po’ più vecchio oggi.

Alessandro Mela

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