Il mondo musicale è caratterizzato dalla morte, soprattutto quello rock. La violenza e il dramma sono una parte del tutto, vanno a braccetto con musica e melodia e contribuiscono spesso a costruire mitologie eterne intorno agli artisti. In mezzo a questo campo di battaglia, sanguinoso e desolante, si erge una figura piena di luce. In tutto, nella sua vita, nella sua arte e perfino nella sua morte.
Jeff Buckley è da considerare come un regalo venuto dall’alto, un gioiello che mantiene solo di facciata le caratteristiche terrene, ma che lascia trasparire in tutto quello che fa una connotazione di poesia regale.
Il 29 maggio del 1997, mentre viaggiava con il suo roadie nel suo furgone verso uno studio di registrazione, decide di fare un bagno. Le rive del Wolf River, un affluente del Mississippi, gli sono sembrate troppo vere e invitanti, in un mondo di celebrità che lo stava avvolgendo inesorabilmente. La libertà promessa da quelle acque è poi diventata una libertà assoluta, dalla vita, dalla notorietà, ma non dal mito. Jeff non tornerà più indietro, affogherà in quel fiume.
La sua parabola è stata vertiginosa e lascia un grandissimo rammarico nei cuori dei suoi fan e di tutti gli amanti della musica. Solo un album, “Grace”, unanimemente considerato un capolavoro della musica moderna, tante cover e canzoni orfane prive di collocazione.
“Sketches for My Sweetheart the Drunk” raccoglie tutti i pezzi che sarebbero dovuti essere nel secondo album di Buckley, il seguito del pluripremiato “Grace”, ma ha il solo pregio di essere un contenitore di pezzi bellissimi che lasciano presagire un futuro di splendore musicale, senza avere l’identità però di un disco finito.
Quello rimarrà per sempre l’unico disco di Jeff Buckley, “Grace”, un’opera di perfezione assoluta. Dieci canzoni prodotte e assemblate in maniera esemplare, che incorniciano il talento musicale senza confini del cantante e chitarrista statunitense.
Figlio d’arte di Tim Buckley, cantante folk celebre nella fine degli anni ’60, ha poi patito in crescita la mancanza della figura paterna, classica rock star con tutte le sue imperfezioni e i suoi vizi. Tim muore di overdose, e durante un concerto in suo tributo a New York, Jeff canta alcuni suoi brani tra cui “Once I Was”. Questo evento denominato “Greetings From Tim Buckley” e l’esibizione di Jeff lo portano alla ribalta e inizia di fatto il mito.
Uscito nel 1994 e prodotto da Andy Wallace, “Grace” ha un successo esplosivo e immediato, ma acquista sempre più splendore ad ogni anno che passa. La canzone che dona il titolo all’album, “Grace”, è uno dei simboli degli anni ’90. Le cover presenti ci dicono quanta grazia la musica di Jeff può dare a canzoni già esistenti, come la cover di Leonard Cohen “Hallelujah”, che le ha dato notorietà eterna. Anche la sua adorata Nina Simone è omaggiata con la bellissima “Lilac Wine”. Il rock energico di “Eternal Life” contrasta con il gospel lieve con un falsetto magistrale di “Corpus Christi Carol”, la ballata perfetta “Last Goodbye” e le misteriose e avvolgenti “Dream Brother” e “Mojo Pin” donano a “Grace” uno spessore e una qualità che non accenna a perdere colpi.
Il resto della discografia è costituita, dopo il già citato “Sketches for My Sweetheart the Drunk”, dal postumo “You And I” del 2016, che raccoglie varie cover degli artisti preferiti di Buckley, quali Bob Dylan, Nina Simone, The Smiths e tanti altri. Da vari live, tra cui i più belli e assolutamente da avere sono “Mistery White Boy”, che incornicia l’esperienza, per quanto possibile, di un suo concerto elettrico, e la perla “Live @ Sin-e”, un live embrionale degli inizi con cover e versioni acerbe dei pezzi che finiranno in “Grace”, con il sottofondo dello sferragliare delle posate dei presenti nel club che stanno mangiando ignari di essere finiti nella storia della musica.
La sua voce è quasi uno strumento con un’anima gigantesca dentro la quale scorrono milioni di affluenti, un enorme, unico flusso musicale che ci attraversa e continuerà dopo che avremo lasciato questa Terra. Patrimonio dell’umanità, Jeff Buckley è uno dei pochi motivi per cui dobbiamo essere grati di essere vissuti in questa epoca storica, e non prima. Un’era di grazia.
Daniele Corradi