“C’è del buono in ognuno di noi e penso che io amo troppo la gente, così tanto che mi sento troppo fottutamente triste. Il piccolo triste, sensibile, ingrato, Pesci, Gesù santo! Perché non ti diverti e basta? Non lo so. Ho una moglie divina che trasuda ambizione ed empatia e una figlia che mi ricorda troppo di quando ero come lei, pieno di amore e gioia.” (Dalla lettera d’addio di Kurt Cobain)
Anche a tanti anni dalla sua scomparsa, è davvero complicato rapportarsi con una figura complessa come quella di Kurt Cobain e un compleanno (mancato) come quello di oggi evidenzia nuovamente quanto sia difficile immaginare cosa avrebbe potuto fare il leader dei Nirvana se non fosse morto nell’aprile del 1994. Ma soprattutto, ha davvero senso porsi una domanda come questa? Molti conoscitori della materia sostengono che, anche se fosse sopravvissuto al famigerato club del 27, a cinquant’anni il buon Kurt non sarebbe arrivato comunque. Tesi in qualche modo sostenuta già da Michael Azerrad nella bella biografia Come As You Are, che spiegava bene come un uomo che sia sopravvissuto ad un tentativo di suicidio sia semplicemente una sorta di morto vivente in attesa di riprovarci e riuscirci, finalmente.
A ben vedere, però, anche questa teoria lascia il tempo che trova, visto che spesso, superato un momento di particolare difficoltà, molti altri sono riusciti a lasciarsi alle spalle la disperazione che li aveva portati a pensare al gesto estremo per eccellenza. In questo senso quello di Eric Clapton, sopravvissuto a decine di tentativi di suicidio e oggi uomo e padre felice, resta un esempio perfetto. Tuttavia, pensare ai cinquant’anni di Cobain, personalmente, mi fa pensare a molto altro. Per esempio, mi fa riflettere sul fatto che insieme a lui sia scomparso per sempre un tipo psicologico ben preciso che, ciclicamente, era apparso nel mondo del rock e che già un minuto dopo di lui pareva appartenere totalmente ad un’altra epoca. Quel mito romantico del maledetto che, come avvenuto sempre anche prima di Cobain, era più creata ad hoc dai media che dallo stesso artista, ma che comunque si alimentava di dichiarazioni contraddittorie, testi controversi e massicce dosi di ironia non compresa. E morte drammatica.
Che si apprezzasse o meno la sua proposta, che lo si considerasse patetico e in preda all’autocommiserazione o semplicemente dotato di una sensibilità superiore alla media, tutti concordano su una cosa: Kurt era uno vero. Talvolta fin troppo. A ben vedere, celebrare oggi Cobain, per chi scrive, significa proprio lasciar perdere tutti i cliché che l’hanno accompagnato in vita e reso spesso irreale dopo la scomparsa. Significa pensare a Boddah, ascoltare in successione un cd dei Butthole Surfers, dei Pixies, degli Aerosmith e dei Queen senza pensare che ci sia qualcosa che non vada in me. Significa pensare che sui R.E.M. avesse maledettamente ragione, che Iggy ci seppellirà tutti e che quando nella esagerata, romanzata e autocommiserativa Something In The Way, Kurt cantava But it’s ok to eat fish/Cause they don’t have any feelings si riferisse proprio a se stesso e al suo segno zodiacale. Maledetto segno dei pesci.
Luca Garrò