Era il 3 marzo 1986, Master Of Puppets dei Metallica veniva pubblicato dalla Elektra Records. Sono passati 28 anni da allora e il testamento artistico di Cliff Burton è ancora oggi il lavoro più amato dai fan della band.
I Four Horsemen scriveranno ancora dischi epocali, a partire dal successivo “…And Justice For All” (1988), apoteosi del thrash tecnico e forte di un brano – simbolo come “One“; ci sarà poi il botto commerciale del “Black Album” (1991), ormai distante dal suono degli esordi ma in grado di unire freschezza compositiva a una fortissima comunicativa di fondo. Eppure nessun altro lavoro del quartetto può vantare un amore così incondizionato da parte di schiere di metallari come “Master Of Puppets”.
Questo per vari motivi, uno dei quali è sicuramente la presenza di Cliff Burton, che morirà pochi mesi dopo in un tristemente celebre incidente in Svezia. Nelle otto tracce dell’opera il suo basso fa letteralmente faville, contribuendo ad irrobustire episodi già devastanti come “Disposable Heroes“, “The Thing That Should Not Be“, “Welcome Home (Sanitarium)” e la title – track stessa; a ben vedere, nessun altro gruppo dell’epoca d’oro del thrash poteva vantare un suono così personale della quattro corde. Ma non è solo per questo motivo se il terzo album della band californiana è diventato una pietra miliare nella storia del metal. Gran parte del merito va ricercato nello straordinario senso d’equilibrio complessivo, ottenuto attraverso un uso magistrale delle dinamiche. Certo, “Reign In Blood” degli Slayer è molto più feroce, veloce e cattivo, mentre i dischi dei Megadeth di Dave Mustaine hanno dalla loro il virtuosismo della scrittura chitarristica. Eppure il senso di completezza che trasuda da “Master Of Puppets” non è stato eguagliato da nessun altro, probabilmente neppure dagli stessi Metallica.
La chiave, come anticipato sopra, sono proprio le dinamiche. Se si eccettua la relativamente più semplice “Damage, Inc.“, posta in chiusura, le restanti sette canzoni sbalordiscono per i loro continui mutamenti di tempi, riff e atmosfere; si passa da galoppate velocissime (“Leper Messiah“) a momenti talmente oppressivi e cadenzati da sfiorare ritmiche doom, ad esempio nelle già citate “The Thing That Should Not Be” e “Welcome Home” (quest’ultima si conclude con un crescendo mozzafiato, in cui Cliff si rivela ancora una volta fondamentale nell’enfatizzare il terrificante muro sonoro). Ci sono poi gli assoli quasi lirici del lungo brano omonimo, con un Hetfield ispiratissimo alla sei corde, un vero e proprio monumento del thrash anni Ottanta; c’è la furia distruttrice di “Disposable Heroes”, forse la composizione più pesante mai scritta dai quattro; infine la strumentale “Orion” prosegue sulla strada tracciata da “The Call Of Ktulu” nel precedente “Ride The Lightning” (1984), ma questa volta le evoluzioni di chitarra, basso e batteria non portano nelle viscere della terra, bensì fungono da colonna sonora mentale per un viaggio nel cosmo (e di nuovo l’equilibrio fra parti solistiche e collettive non fa una grinza).
Non c’è molto d’aggiungere. “Master Of Puppets” non è l’LP thrash più intricato della storia, né il più violento e nemmeno il più veloce: è un perfetto amalgama di tutti questi fattori, e altri ancora (potenza d’assieme, lirismo ed epicità, etc.). Per questo è insuperabile.
Stefanio Masnaghetti