Se esiste un anno spartiacque per la musica mondiale quello è sicuramente il 1996. Venti anni fa si era giunti ad un bivio serio: l’elettronica anni Ottanta aveva perso la sua sintetica potenza, il Britpop stava cantando come i cigni, il rock cercava la sua anima dopo l’effimera eccellenza del grunge, il metal esplorava strade. C’era bisogno di nuovo, di contaminazioni, di aperture a generi differenti.
Tra le musiche protagoniste del 1996 c’è indubbiamente quella black a colpi di hip hop e rap incazzato. Contamina qualunque genere, anche il folk, tanto che Beck pubblica Odelay, uno dei suoi migliori album di sempre, mescolando tutti i generi in un concept album magico e affascinante. Sulla falsariga bel black più funky arrivano anche i Jamiroquai di Jay Kay con l’eccellente Travelling Without Moving, che riporta in auge i migliori suoni degli anni settanta e spacca le classifiche con una serie di singoloni.
Nel settembre 1996 muore Tupac Shakur. È quasi la fine del conflitto tra East e West Coast, che si concluderà l’anno successivo con la morte del rivale Notorious BIG. A prendere il posto dei due re debutta Jay-Z con Reasonable Doubt, spostando i riflettori sui grandi rapper in grado di essere anche manager e imprenditori di se stessi senza dimenticare la potenza musicale. Cosa farà poi Jay-Z sta scritto nel successo di Beyoncé.
L’Italia sfodera due album notevoli per il rap: uno più massivo, uno più underground, entrambi dalla potenza indescrivibile e non solo sul mercato. Così Com’è degli Articolo 31 riscrive completamente il concetto di “hip hop for the masses” e sopratutto lo rende “spaghetti funk”, raccontando la storia delle periferie milanesi e prendendo in giro stereotipi che ancora oggi sono duri a scemare. Dall’altro lato, sono i Colle Der Fomento che fanno esplodere il loro Odio Pieno parlando di giustizia sociale senza perdere la consapevolezza di testi al limite del politicamente corretto, e accendono un faro sulla scena hip hop romana da sempre di pari passo a quella milanese.
Chi mescola tutto, ancora di più, è però il gruppo di Elio e Le Storie Tese. La capacità di musicisti straordinari unita ad una scrittura ironica e in stato di grazia fa nascere il loro album più compatto, Eat the Phikis, che sancisce anche la discussa partecipazione a Sanremo 1996 con il sospetto della mancata vittoria (donata a Ron e Tosca: uno scippo conclamato dal quale non ci siamo mai ripresi). All’album partecipa gente come James Taylor ma anche Edoardo Vianello, Giorgia, Demo Morselli ai fiati. In parallelo, i CSI pubblicano Linea Gotica: è il loro secondo disco come Consorzio Suonatori indipendenti ed è una vera pietra miliare, con testi che spaziano tra i fatti della Storia e la critica alla società, e suoni ricercati e noise a fare da contorno. Una meraviglia di album che non può mancare in nessuna disco-teca che si rispetti.
Il mondo del pop internazionale, invece, è tutto delle Spice Girls con Spice. È il disco d’esordio delle cinque fanciulle inglesi dalle scarse capacità vocali, interamente costruite a tavolino secondo precisi canoni estetici e addirittura razziali, per questo potenti come non mai. È l’inizio dell’era del pop più commerciale e plasticoso, tanto irresistibile quanto vuoto: era quello che cantava, temendolo, Gianluca Grignani in La Fabbrica di Plastica, il secondo disco che è uno shock per le fan del sognante menestrello milanese innamorato. L’album è rock, acido, quasi psichedelico, mostra un Grignani diverso e non scontato. Il successo è ovviamente poco; la riabilitazione delle gemme acerbe del disco arriverà solo molto dopo, quando Gianluca si è già perso nel peggior successo commerciale. Proprio quello che aveva ampiamente stigmatizzato.
L’elettronica si difende con un album distopico come Dead Cities dei The Future Sound Of London, che arriva a dare una svolta alla dance e alla musica ambient contaminandola con elementi postmoderni. Siamo dalle parti di un’apocalisse house, che sfonda le tradizionali barriere del rave. Più tranquillo, dal respiro internazionale, è Dreamland di Robert Miles, all’anagrafe Roberto Concina, che conquista le vette delle classifiche inglesi grazie a pezzi intramontabili come One To One.
Le soddisfazioni maggiori, però, arrivano dalle diramazioni del rock, che cerca di non farsi assorbire dagli ultimi scampoli resistenti del grunge nostalgico. Esplodono gli Skunk Anansie dell’elegante Skin con l’energico Stoosh, che coniuga rock e pop in maniera intelligente grazie a testi politicamente coinvolgenti, e manda in classifica una vera ballad chitarrosa come Hedonism. Marilyn Manson sradica il mondo con Antichrist Superstar, dall’estetica grottesca che prende in giro gli stilemi dell’America, mentre i Rage Against The Machine sfoderano il loro Evil Empire, titolo preso in prestito ironicamente da una frase di Ronald Reagan contro la ex URSS, facendolo trainare dalla potente Bulls On Parade per l’eterna commistione tra rap e metal.
A dare manforte è infatti proprio il metal dei più conosciuti: i Tool pubblicano il secondo disco Aenima, ovvero uno dei più influenti del genere progressive grazie ad arrangiamenti che superano la perfezione, mentre i Metallica escono con Load, il disco che dopo il Black Album li consegna definitivamente all’immaginario del metal per tutti grazie a continue autocitazioni (vedi Unforgiven II). Tornano anche i Sepultura con Roots, l’album del loro maggior successo commerciale nel mondo, e i Pantera con The Great Southern Trendkill aprono quasi a sonorità più morbide, senza dimenticare la potentissima anima speed metal che da sempre li forma (e al netto di overdose di Phil Anselmo, per il quale fu un anno particolarmente difficile per usare un eufemismo). Arrivano anche i Nevermore con The Politcs Of Ectasy per il thrash metal al suo meglio, fatto di ipnotici arrangiamenti che non snaturano l’essenza della band, e sul versante death a tenere altissima la bandiera ci sono gli In Flames con il secondo disco The Jester Race, una vera e propria pietrata in testa.
Se vent’anni fa c’eravate, ve li ricordate. Se non c’eravate, scopriteli: se ve li siete persi, ascoltateli.
Arianna Galati