Bruce Springsteen (“The River”), Dire Straits (“Making Movies”), Tony Iommi (self titled album), Nevermore (“Dead Heart In A Dead World”) e Limp Bizkit (“Chocolate Starfish e via dicendo”). Tutti dischi opposti tra loro e senza apparenti connessioni. Eccezion fatta per un solo elemento. Sono tutti album usciti il 17 ottobre e che, nel 2020, festeggiano anniversari davvero importanti.
Strana questione quella della celebrazione degli anniversari, delle ricorrenze, dei momenti in cui si ricorda qualcosa che ha segnato noi, la società, gli appassionati o, in questo caso, la storia della musica a ogni livello.
Sarà che oramai il pubblico è spaccato a metà: da un lato i nostalgici e i fan del vero Rock, dall’altro giovanissimi consumatori seriali di pezzi di durata appena superiore ai due minuti e mezzo in modalità shuffle sulla viral 50 di Spotify. Nel mezzo possono indubbiamente esserci innumerevoli eccezioni, ma grossomodo la situazione è questa. In un ridente 2020 che, grazie alla pandemia, verrà ricordato a lungo come uno tra i periodi peggiori dell’era moderna.
Il 17 ottobre 1980 uscivano “The River” del Boss e “Making Movies” dei Dire Straits. Due album epocali, capolavori senza tempo che, oggi a distanza di 40 anni dalla loro effettiva release, fanno impallidire qualsiasi altra uscita contemporanea. Curioso il fatto che Springsteen, tra pochi giorni – il 23 ottobre 2020, pubblicherà “Letter To You”, ennesimo capitolo di una carriera discografica che ha in “The River” uno dei tanti picchi artistici.
In Musicologia – approfondimento culturale e storico sui migliori album della storia, pubblicato su questo sito nel 2013 – parlavamo così di “The River”.
Reduce da riconoscimenti incredibili per i suoi due lavori precedenti, The Boss rischia la mossa azzardata, confezionando un doppio album dalla durata importante (per quel periodo), oltre ottanta minuti. Deciso a sfruttare in pieno la sua migliore fase compositiva di sempre, Springsteen riesce a mettere insieme un rollercoaster emozionale di difficile descrizione, unendo composizioni prettamente acustiche a momenti esplosivi grazie all’aiuto della superlativa E Street Band. Più in generale, un lavoro inizialmente ostico sulla carta, diventa diretto e orecchiabile nonostante il minutaggio: la title – track, “The Ties That Bind”, “Hungry Heart”, “I’m a Rocker” e “Drive All Night” sono tra i momenti più coinvolgenti e toccanti di un doppio disco che, se ancora ce ne fosse stato bisogno, consacrerà sempre di più il ‘working class hero‘ degli States a icona della musica mondiale.
In questo modo invece, introducevamo l’ascolto di “Making Movies” dei Dire Straits, band guidata dal leggendario chitarrista Mark Knopfler.
Il terzo LP di Knopfler e soci cancella il mezzo passo falso del precedente “Communiqué” (1979) e incorona definitivamente i Dire Straits al rango di rockstar. Il brano di punta è “Tunnel Of Love“, lungo oltre otto minuti e illuminato da uno dei migliori assoli dell’intera carriera di Mark, con in più il regalo del pianoforte di Roy Bittan (E Street Band). Pubblicato in ottobre, “Making Movies” sbanca soprattutto in Italia, tanto che sarà il disco più venduto del 1981. La band inglese ha compreso qual è, per lei, la formula segreta del successo, e non l’abbandonerà mai più: si tratta di un rock che prende spunto dal british blues dei Sessanta e lo ripulisce degli elementi più pesanti e affini all’hard, ottenendo così un sound perfetto per quasi ogni palato. Idea semplice ma efficacissima, soprattutto se le capacità tecniche dei musicisti sono elevatissime, come nel loro caso. Il lavoro fa segnare anche l’abbandono del fratello di Mark, David, rendendo i Dire Straits un trio.
Differente il quadro che, nel 2000, accoglieva release fondamentali nelle carriere di due band all’epoca in cima alle rispettive catene alimentari. I Limp Bizkit dominavano le charts di tutto il mondo, grazie a un crossover che univa rap e metal in una simbiosi che verrà superata e resa ancora più mainstream di lì a pochi giorni grazie alla pubblicazione di “Hybrid Theory” dei Linkin Park. I Bizkit di Durst erano all’apice assoluto, vendevano milionate di qualsiasi release (lo faranno fino al 2003) ed erano una delle band maggiormente influenti negli States. Anche temute volendo. Basti pensare all’esibizione a Woodstock 1999, con relativi disordini e violenze di varia natura esplose proprio durante il loro set. Nonostante questo le cose per i LB andranno commercialmente ancora benissimo per un bel po’ e “Chocolate Starfish and the Hot Dog Flavored Water”, pur venendo trattato malino dalla critica dell’epoca, venderà oltre 6 milioni di copie nei soli Stati Uniti e permetterà alla band di consacrare singoli come “Take a Look Around”, “My Generation”, “Rollin'”, “My Way” e “Boiler”.
I Nevermore (da Seattle) di contro erano tra gli idoli assoluti delle nuove generazioni metallare. Considerati da molti i salvatori del genere e capaci in pochissimi anni di incidere album eccezionali (“The Politics of Ecstasy” e “In Memory”), arrivano a “Dead Heart In A Dead World” al proprio apice creativo, riuscendo a far diventare mainstream (pur sempre nel campo della musica pesante) brani violentissimi ma capaci allo stesso tempo di aperture melodiche imprevedibili. Su tutte la ballata “Believe In Nothing” e la hit “Inside Four Walls”, ma anche la pazzesca cover di “The Sound Of Silence”. Il resto lo fanno le atmosfere dark e le partiture ai confini col progressive puro, ricoperte di thrash e groove metal fornito dall’estro di Jeff Loomis, chitarrista tremendamente abile. L’abilissimo frontman Warrel Dane è figura carismatica e imprescindibile, ma anche, a causa della dipendenza dall’alcol, diventerà croce e delizia di una formazione che non riuscirà più a ripetersi su simili livelli qualitativi nel decennio successivo. Dane è scomparso nel 2017, mentre i Nevermore si erano sciolti nel 2011.
In molti credevano davvero che i Nevermore avrebbero potuto raccogliere l’eredità dei grandi gruppi thrash degli anni Ottanta per portare il genere nel nuovo Millennio, diventando una band gigantesca capace di dominare le arene per lungo tempo. “Dead Heart In A Dead World” è il picco artistico assoluto del quintetto, capace di fondere in una miscela unica e indistinguibile heavy, progressive, ovviamente thrash e stacchi melodici incredibili, che arrivavano quasi a sorpresa sotto tonnellate di riff e intricati cambi di tempo. La proposta spopola tra i ragazzini e conquista anche le vecchie glorie ammaliate dall’ugola di Warrel Dane e dai virtuosismi di Loomis (chitarra) e Van Williams (batteria). A distanza di anni, questo rimane uno degli album migliori del Duemila in ambito metal evoluto, peccato che nell’immediato futuro il gruppo perderà la bussola, rimanendo confinato in un limbo underground che andava già allora strettissimo al quartetto di Seattle.
Infine il padre dell’heavy metal, colui che con i propri riff ha costruito genere ed eredità dai primissimi anni Settanta. Tony Iommi il 17 ottobre 2000 pubblica il suo primo album solista. Una gestazione lunghissima, un lustro, ma un risultato finale (e un parterre di ospiti) da far emozionare anche il più smaliziato rocker. Se l’hard & heavy che permea il disco è facilmente riconducibile alla casa madre Black Sabbath, Iommi presenta un vocalist diverso su ogni pezzo (Henry Rollins, Skin, Dave Grohl, Phil Anselmo, Serj Tankian, Billy Corgan, Ian Astbury, Pete Steele, Ozzy e Billy Idol), riuscendo a coinvolgere anche musicisti come Brian May e Matt Cameron nel progetto. Criminalmente dimenticato all’epoca, va necessariamente riscoperto e ascoltato nuovamente senza riserve per celebrarne la grandezza. E no, per ora non lo troverete su Spotify (ma su YouTube sì. Prego.). Provate voi a stabilire le royalties per ogni artista coinvolto in soli dieci pezzi…altroché i brani odierne dei trapper con 40 ospiti differenti per ascoltare 3 minuti di drop e parlato…