Pearl Jam, Yield compie vent’anni

Ascoltando musica da anni sono giunto a questa conclusione: le note sono l’unico mezzo per ingannare il tempo. La macchina per viaggiare avanti e indietro sulla linea temporale della nostra vita non esiste o perlomeno non ancora. Ma si può chiudere gli occhi e usare i sensi. Così è un attimo balzare indietro nel tempo di venti anni, non usando una DeLorean o una cabina telefonica o altro ma facendo partire la prima traccia di un disco uscito nel 1998. Grida Eddie Vedder. Il ritornello profetizza con inquietante perizia. Esce Yield dei Pearl Jam e il mondo non sarà più lo stesso. Non per noi e nemmeno per loro. In peggio.

Erano Pearl Jam diversi. Una band più piccola? Direi di no. Più vicina ai suoi fan? Si, quello lo posso dire senza pesi sul cuore. Lottavano contro i colossi distributori dei biglietti dei live, combattevano la plastica dei packaging con la carta. Abbattevano il mercato illegale dei bootleg pubblicandoli loro stessi in prima persona. Quando uscì Yield in Italia godeva di una pubblicazione speciale che prevedeva una traduzione dei tesi ragionata e curata da Vedder in prima persona, perché non era soddisfatto di come le sue canzoni venivano tradotte nel nostro paese travisando il reale significato delle sue parole. Quale altro artista farebbe una cosa del genere per il nostro paese? Nessuno, nemmeno Vedder stesso. Non più. I Pearl Jam componevano e pubblicavano per vendere ma ancora con dentro quella foga spasmodica di comunicare, di raccontare e raccontarsi, di criticare, abbattere. Di prendere i loro fan e farne una armata contro le ingiustizie. Cosa è rimasto di tutto questo? Folle oceaniche, stadi, ritornelli urlati al cielo da decine di migliaia di persone, fan che collezionano record di concerti visti e tengono le classifiche dei pezzi suonati o non suonati. Spesso una cosa meccanica, senza anima. Risse per accaparrarsi i biglietti dei concerti e loro lassù muti e immobili a guardarci rotolare nel fango, insensibili e distaccati. Erano nel fango con noi una volta, in quegli anni ’90 che finivano con i fantasmi e i reduci di un movimento che moriva e si ritirava, lasciando dietro di se le trincee sporche e fumose e gli sguardi attoniti di chi ha vissuto alla grande e alla grande si è sbriciolato a terra.

Yield, che proprio in questo momento crepuscolare della musica Grunge decide di tornare a picchiare duro dopo la sperimentazione multicolore di “No Code”. Un cartello stradale, precedenza. Una strada che si inerpica nel deserto. Il mistero del non conosciuto, l’ammonimento di un divieto ma l’ebrezza del vuoto da riempire con furia e velocità. Ed è proprio con la furia che saturano questo album, furia e poesia come non mai. “Brain Of J.” è rabbia e paura del futuro, “Do The Evolution” (con cui il gruppo torna a fare videoclip per la prima volta dai tempi di “Ten”, con un cortometraggio animato potentissimo) condanna il capitalismo e l’avidità dell’uomo che sotto le mentite spoglie dell’abito da sera chiamato evoluzione tutto mastica e distrugge incurante del bene comune. Ripercorriamo le canzoni dell’album che sono diventate dei classici della band, e sono molte. “Whishlist” è forse una delle più belle poesie in musica mai scritte, con il suo testo da un lato positivista ma con un retrogusto di disillusa malinconia che trasformano la canzone in un inno multiuso tra le più dedicate. “Given To Fly”, potentissimo capolavoro tra i punti più alti della produzione complessiva dei Pearl Jam, “MFC” la canzone scritta in Italia e per questo una delle connessioni più dirette di Vedder con il nostro paese che live non manca mai di rimarcare.

Lo spessore di Yield però va oltre i pezzi memorabili in vetrina. Un grande album passa alla storia per i suoi comprimari, che permettono di lasciare il tasto dello skip inoperoso. Perché “Faithfull” è una magia di melodia e potenza così come “Pilate”, mentre “No Way” è un portento di tecnica e ritmo gentilmente offerta da Stone Gossard. In questo album la composizione anche dei testi è per la prima volta corale e non solo esclusiva di Vedder e funziona e anzi viene da pensare che una rivitalizzazione della produzione in studio dei lavori futuri dovrebbe passare proprio da questo. Esistono poche ballate della bellezza di “Low Light” scritta da Jeff Ament e “In Hiding” se la sogna qualsiasi gruppo rock. La perla a se stante “All Those Yesterdays” è da sola il manifesto di una band che ha dentro di se e dentro questo album mille universi di suono e di anima, tutti genuini e onesti. Ascoltare Yield oggi, nel 2018, ci urla impietosamente che questa band si è persa e va avanti con l’inerzia di un ego inesauribile, quello di Vedder, ma che forse è ora si distacchi dalla radice madre e cresca da solo.

Daniele Corradi