Sono già passati 10 anni dall’ultimo disco dei Type O Negative, e quasi 7 dalla morte del leader e fondatore Peter Steele. Viene da ridere a pensare che, prima dei Nickelback, prima degli Slipknot, furono proprio loro i best seller della leggendaria etichetta Roadrunner. Che volponi, quelli della Roadrunner: etichetta olandese (in origine), importava dischi americani in Europa. Poi il trasferimento in USA, i primi successi a fine anni ’80 con King Diamond ed Annihilator (!!!), poi gli anni ’90 a colpi di death metal e Sepultura…e chi a sorpresa ti piazza il disco di platino (cifre astronomiche per il genere)? I Type O Negative. Notevole considerare quanto la loro in fondo breve discografia fu trasversale negli anni ’90, quanto riuscirono a raccogliere senza mai compromettere il loro sound. E proprio avere un sound inconfondibile, come la voce baritonale di Peter Steel e il suo basso distorto e gelido, è prerogativa dei più grandi.
Nel 1991, all’esordio dei TON, Peter non era un debuttante. Già temprato dall’esperienza con la band thrash/hardcore Carnivore, se ne andava in giro per la costa occidentale americana vestito da comparsa di Mad Max, sbraitando di guerrieri termonucleari, supremazia maschile e Gesù Hitler. Non proprio roba da classifica.
Chiamò gli amici di infanzia (Josh Silver alle tastiere, Kenny Hickey alla chitarra e Sal Abruscato –poi sostituito da Johnny Kelly- alla batteria), scelsero Sub-Zero come nome della nuova band e si fecero il tatuaggio celebrativo con “-“ e “O”. Ops nome già preso, che fare? Apertura a caso dell’elenco del telefono, avviso della croce rossa con richiesta donatori di sangue tipo zero negativo e voilà, salvati in corner.
Slow, Deep and Hard, primo disco dei TON, fu in fondo un lavoro composto rapidamente con canzoni scartate dalla prima band. Già una dichiarazione di intenti: le sfuriate più hardcore rimangono, affiancate a cali di velocità figli dei Black Sabbath e atmosfere apocalittiche e decisamente doom, gentile cortesia delle tastiere di Josh Silver. Peter canta di un misogino violento, depresso e femminicida, dell’avversione per i parassiti sociali e di storie d’amore che possono finire solo in tradimento e paranoia. “Unsuccesfully Coping with the Natural Beauty of Infidelity”, per gli amici “So che ti scopi un altro”, riesce a coniugare in un’epica suite di 12 minuti hardcore, orgasmi, rallentamenti soffocanti e melodie anni ’60. Ma già dai titoli si capisce che qualcosa non torna, la band ci trolla alla grande…ed ecco serviti altri ganci come il brano da un minuto di silenzio o la copertina che è un cazzo dentro una vagina. Ma se non ve lo dicono non ci arrivate.
I quattro sono dei veri e proprio cazzoni, pieni di umorismo nero, sempre in bilico tra l’esserci e il farci. Nel ’92 la casa discografica chiese un live? La band giudicò il budget insufficiente, registrò The Origin of the Feces nel cortile di casa aggiungendoci delle voci di sottofondo e sbattendo in copertina il buco del culo del frontman. Eppure in tutto questo riuscirono a piazzare la personalissima cover della “Hey Joe” popolarizzata da Jimi Hendrix, per l’occasione chiamata “Hey Pete”.
Il ’93 fu l’anno della consacrazione. Bloody Kisses fu il loro successo più grande, l’apice del loro sound, dove i quattro newyorkesi coniugano cavalcate metal, melodia anni ’60, solenni marce funebri, intermezzi (malati) alla Pink Floyd di The Wall, riff come macigni. Le lesbovampire in copertina e il loro look tutto nero nero nero con lunghissimi capelli corvini li resero i nuovi padrini del goth…il che è tutto dire, quando il tuo pezzo di punta (“Black n°1”) è la presa in giro di una gotichella indecisa se uscire o meno la sera perché piove e si è appena rifatta la tinta. L’altro classico (“Christian Woman”) racconta di una ragazza talmente innamorata di Gesù da masturbarsi in chiesa…quindi direi che pareggiarono i conti.
L’atteso ritorno nel ’96, October Rust, coincise col periodo di massima visibilità e notorietà della band. Le ragazze gotiche erano tutte bagnate per Pete, e non perché si era fatto fotografare con l’uccello di fuori. L’album è un concentrato di melanconia, erotismo e tragico romanticismo, con brani come “Love You To Death”, “Be My Druidess”, “My Girlfriend’s Girlfriend” e la cover di “Cinnamon Girl” di Neil Young. Non mancano regali ai metallari come “Wolf Moon”…d’altra parte avranno anche fatto sbrodolare le ragazze, ma in tour ci andavano con i Pantera. Il disco è uno di quelli lunghi, così lunghi che sembrano non finire mai…ma se provi a cercare il pezzo di troppo non lo trovi. Per Pete solo soddisfazioni: riuscì, a detta sua, a creare un mix delle band che amava di più, Beatles e Black Sabbath.
Il successo porta i problemi. World Coming Down uscì nel 1999 e si portò sulle spalle tutte le esperienze negative di Pete legate alla cocaina e all’alcool, unite alla sofferenza data da diversi lutti familiari. Diciamo che “Everyone I Love is Dead” ed “Everything Dies” non sono state scritte per caso. Il disco è il più lento ed inesorabile della band, il sound gelido, apocalittico e desolante. A tutto questo si unisce un rapporto non certo idilliaco con la casa discografica, colpevole di aver pubblicato un best of della band senza l’apporto della band stessa.
Eppure non è tutto perduto: la band da l’addio all’etichetta che li ha lanciati con il loro disco più melodico ed orecchiabile. Life Is Killing Me, nel 2003, porta del rock veloce come “I Don’t Wanna Be Me” e la cover di “Angry Inch”, molte parti d’atmosfera e molta melodia anni ’60. Il periodo coincise con tour estesi, anche in zone mai coperte. Un ritorno sui palchi addirittura per i Carnivore, con show celebrativi, e fervente attività di scrittura da parte di Pete, in costante lotta per cercare di liberarsi dalla coca.
E si arriva così alla fine. Il conclusivo Dead Again fu una sorpresa, uno scossone in un sonnecchiante 2007. Decisamente il disco ‘più metal’ della loro discografia ma anche un sunto di tutti i precedenti, un condensato del loro sound calibrato perfettamente. Ci sono pezzi d’assalto come la title track e “Halloween in Heaven”, la melodia malinconica di “September Sun” ma anche un paio di lunghe suite come agli esordi (“Profits of Doom” e “These Three Things”), che portano un ottovolante di atmosfere e riff diversi. Ormai lontani dal clamore mediatico, basta paturnie su canini limati, scherzi di cattivo gusto, dichiarazioni di suicidio, dichiarazioni di scioglimento…fu un piacere avere per l’ultima volta la band sul pezzo, con un disco tanto completo, e parecchio attiva anche dal fronte live. Una gioia per i fan.
Tre anni dopo, in procinto di iniziare a scrivere un nuovo disco, Peter ci ha lasciato, stroncato da un’insufficienza cardiaca. Forse è il destino degli uomini grandi e grossi quello di lasciarci prematuramente, forse la cocaina non è che abbia aiutato. Ci ha lasciato troppo presto una delle anime più tormentate della musica pesante, capace però di incanalare il suo tormento nella sua arte, senza deprimerci e senza prendersi troppo sul serio. Mettendoci a disagio con l’inaspettato e l’autoironia, ridendo della morte e di noi creduloni. Il disco di platino lo usava come tavolinetto per appoggiarci le birre, il verde e il nero (i loro colori bandiera) scelti perché statisticamente i meno apprezzati.
Chiudo con un ricordo personale, della volta in cui incontrai la band per un’intervista. A vederli in foto, Peter sembrava quello grosso. E invece no: sono TUTTI grossi, e Peter era ENORME…eppure, al di là delle apparenze, sempre cordiali, cazzoni, giocosi.
Addio Green Man, non ti dimenticheremo mai.
Marco Brambilla