Il 2005 è stato per la musica mainstream un anno di depressurizzazione per due motivi: è inserito nel bel mezzo della rivoluzione digitale, quella che ha portato il download illegale nelle case di tutti e le vendite dei dischi a picco, ed è piazzato tra due annate di qualità come il 2004 e il 2006 (nei quali, per citare due esempi a caso, sono saltate fuori sorprese dai Green Day, debutti col botto di Franz Ferdinand, The Killers e Arctic Monkeys e la definitiva esplosione di Justin Timberlake, che avrebbe gettato le basi del pop da lì in avanti con il clamoroso “FutureSex/LoveSounds”).
Dieci anni fa, come un fulmine a ciel sereno e tra il silenzio generale, arriva un riccioluto 29enne dall’altra parte del mondo (Brisbane, Australia) a dare una svolta alla scena nazionale come non si vedeva dai tempi di AC/DC e INXS. L’omonimo debutto dei Wolfmother esce il 31 ottobre del 2005 ed è frutto di un lavoro fatto a Los Angeles tra sale prove e i leggendari Sound City, dove l’album verrà registrato nel giro di un paio di settimane. La band di Andrew Stockdale, che in quegli anni si presentava come un trio (lo accompagneranno nei primi anni Chris Ross e Myles Heskett), è stata un’azzeccata scommessa della Modular, etichetta parte della galassia Universal fondata con lo scopo di valorizzare i talenti locali, ora caduta in disgrazia per motivi di diritti ma capace di lanciare pochi anni dopo un nome come i Tame Impala.
Il successo in madrepatria è di portata eccezionale: pur non arrivando mai in vetta (lo vedremo al massimo al numero 3), il passaparola farà arrivare “Wolfmother” al traguardo dei cinque dischi di platino (più di 350000 copie vendute), quasi due anni ininterrotti nelle chart e ottimi riscontri ottenuti dalla critica. E le ragioni c’erano tutte, perché “Wolfmother” è uno di quei dischi che, pur essendo stato ben foraggiato da una major, presenta delle basi solidissime. “Joker And The Thief”, “Dimension”, la cover “Woman” o un outsider come “Witchcraft” non passano infatti inosservate alle orecchie degli appassionati delle sonorità Seventies di band come Black Sabbath e Led Zeppelin, i due lumi attorno al quale gira l’opera del power trio australiano.
Tutto molto bello, ma quanto detto sopra è avvenuto dall’altra parte del mondo: per vedere lo sbarco dei Wolfmother in Europa e Nordamerica bisognerà attendere la prima metà del 2006. Chi si aspettava un fuoco di paglia si è invece trovato davanti una solida band che, pur non sfondando nelle charts (la top ten la otterranno solamente in Norvegia), porterà a casa ben tre dischi d’oro, la presenza in numerose colonne sonore di videogames (il veicolo più importante per la diffusione di nuovi artisti già da diversi anni) e un Grammy Awards con “Woman”, battendo a sorpresa la concorrenza di System Of A Down, Tool e Nine Inch Nails. Nel giro di un anno i Wolfmother erano passati da perfetti sconosciuti a nome più caldo del rock internazionale.
Il giocattolo inizia però a rompersi nell’estate del 2008, quando Myles Heskett e Chris Ross lasciano il gruppo, facendo diventare di fatto i Wolfmother il progetto solista di Andrew Stockdale e interrompendo la magia che si era creata nel power trio delle origini. Da lì in avanti, infatti, la storia della rock band australiana sarà caratterizzata da scelte sbagliate, delusioni e anche alcuni malanni che li costringeranno a cancellare interi tour.
L’uscita di “Cosmic Egg” nell’ottobre del 2009, scritto e registrato con la seconda lineup del gruppo (che vedrà coinvolti oltre a Stockdale Ian Peres, Aidan Nemeth e Dave Atkins), aveva illuso i fan del gruppo, che si sono trovati davanti un lavoro di qualità che, pur non ottenendo neanch’esso grandi piazzamenti nelle classifiche di vendita (in questo caso, la top ten arriverà solo in Australia), aveva confermato il valore del gruppo grazie a tracce come il singolo “New Moon Rising”, la title track e “Feather”, oltre a un’aria nella quale si respirava l’amore per l’heavy metal, l’hard rock e il blues elettrico di Hendrixiana memoria.
Dal 2010 in avanti, però, la storia del gruppo prende una brutta piega: l’evento scatenante avviene a maggio, quando il gruppo è costretto a cancellare un tour europeo per non meglio precisate ragioni di salute. Con l’anno che, di fatto, diventa un lungo momento di pausa per il combo, ad inizio 2011 iniziano a circolare i primi dettagli sul terzo capitolo discografico, la cui uscita era fissata inizialmente per il 7 novembre 2011. Inizialmente, si diceva: il terzo disco dei Wolfmother, infatti, assumerà sempre più i cromosomi di un grande incompiuto, con la sua uscita che slitterà più volte negli anni successivi. Ad aggiungere benzina al fuoco un altro cambio di line-up ad inizio 2012, che rallenterà ulteriormente i lavori.
Per un breve periodo il terzo lavoro sembrava fosse destinato a non trovare spazio nei negozi: nel 2013, infatti, la band venne sciolta e diventò il progetto personale di Andrew Stockdale, con i brani già scritti che troveranno spazio nel suo primo album solista “Keep Moving”, lavoro che, se fosse uscito con il marchio Wolfmother, avrebbe dato una svolta definitiva al gruppo: smussato l’amore per il rock più duro, le canzoni presentano un songwriting più maturo e curato, virando su quel blues rock e la neopsichedelia che avrebbero potuto dare a Stockdale e soci grandi soddisfazioni.
Le ottime intuizioni di “Keep Moving” vengono però demolite in un colpo solo nel 2014, sancendo il dubbio che il successo dei Wolfmother sia stato in realtà frutto di una serie di azzeccati colpi di fortuna avvenuti ad inizio carriera. Il 23 marzo 2014 compare su Bandcamp (primo lavoro da indipendenti dopo una carriera con Universal) il terzo atteso album “New Crown”, ed è un flop colossale. Registrato nella seconda metà del 2013, e pubblicato senza alcun annuncio, chi si aspettava di trovare degne eredi di canzoni come “Woman” o “New Moon Rising”, o anche solo una traccia della qualità del lavoro solista, si trova davanti un grandissimo incompiuto: un lavoro inconstante che, pur presentando alcuni tra i frammenti più clamorosi della loro carriera (“How Many Times”), si svela come un promo peraltro fatto male. Strumenti registrati con una qualità che neanche i demo più scadenti degli anni Settanta (i primi album dei Bad Brains, registrati nei sottoscala, avevano un tiro che “New Crown” se lo sogna), le linee vocali di Andrew Stockdale che fanno fatica a toccare le vette degli esordi, ed episodi che superano il confine dell’imbarazzo come la conclusione di “My Tangerine Dream”.
Nel 2015 cade il decimo anniversario dell’uscita di “Wolfmother”, celebrato da Universal Music con una ristampa che includerà un secondo cd con live e altre rarità. Il nostro consiglio, per chi non conoscesse il gruppo o non possedesse il disco in originale, è quello di comprare a scatola chiusa questa grandiosa opera, uno degli album rock più importanti del terzo millennio. E se vi dovesse interessare anche il resto della discografia? Lasciate perdere: nel giro di un decennio, gli australiani sono stati in grado di passare da band dall’altissimo potenziale a meteore da spernacchiare a causa di grandi sfortune ma, soprattutto, dell’enorme ego di Andrew Stockdale che si è fagocitato in poco tempo una delle promesse più interessanti del Terzo Millennio. Sempre che, ma sarà molto dura, il quarto lavoro in uscita nel 2016 non riesca a mescolare le carte in tavola.
Nicola Lucchetta