Un po’ tardi? Forse, ma a volte conviene prendersi un mese in più e analizzare bene la situazione. Eccovi il nostro resoconto sui dischi e gli artisti che hanno segnato il decennio appena trascorso. Il sound degli anni ’00, senza limiti di genere, passando da quelli che conoscono tutti, a quelli che solo alcuni ascoltano. Mancherà questo oppure quell’altro, ma sicuramente molti dei presenti hanno lasciato qualcosa di grosso tra il 2000 e il 2009, hanno fatto parlare di sé e hanno colpito un folto pubblico, che poi vi piacciano o meno questo è un altro paio di maniche…
Nightwish – Once (2004). Poco amati dai metallari oltranzisti, hanno saputo aprire la strada a quel gothic symphonic metal con voce femminile che ha imperversato da lì fino a fine decennio anche come trend per giovanissimi. Questo disco è il loro apice creativo e il simbolo di un intero filone.
Devendra Banhart – Rejoicing In The Hands (2004). Ecco il menestrello del nuovo millennio. E’ hippie e stralunato. Voce, chitarra, good vibration a bassa fedeltà tra Nick Drake e Bonnie Prince Billy. Non è una star ma si è cucito addosso un personale alone di leggenda, da mistico indiano, con una vita da busker.
Mastodon – Leviathan (2004). Con “Leviathan” il quartetto della Georgia ha mostrato come si può svecchiare l’heavy metal senza per questo snaturarne il feeling. Successivamente i Mastodon si dirigeranno verso lidi sempre più progressivi e settantiani, ma questo album rimane il loro vertice, perfettamente bilanciato fra furia core ed epicità metal. Imprescindibile.
Offlaga Disco Pax – Socialismo Tascabile (2005). Un fenomeno tutto nostrano che si riempie i polmoni di retrò, in quanto l’italiano è un inguaribile malinconico. La new wave e i racconti (parlati) degli anni ’80, la gioventù, il comunismo popolare. E i ricordi dei CCCP.
Orthrelm – Ov (2005). Chitarra e batteria per un solo pezzo di 45 minuti, basato su strutture additivo/ripetitive suonate a velocità pazzesca. Grind, postcore, bombardamenti metal e il minimalismo americano mescolati insieme per quello che rimane l’esperimento musicale più interessante del decennio. Peccato non abbia avuto ancora un seguito.
Wolfmother – Wolfmother (2005). Il ritorno delle sonorità Seventies passa da loro, fulmine a ciel sereno con la testona improponibile di Stockdale a celebrare Led Zeppelin e Black Sabbath nel nuovo millennio. Non inventano nulla ma il loro nome fa il giro del mondo. Rolling Stone all’epoca li mise tra le band da tener d’occhio, non hanno certo sbagliato.
Joanna Newsom – Ys (2006). Diventare fighi suonando l’arpa. Ma Joanna lo fa in maniera letale, producendo un disco cantautoriale surreale e pieno di melodie e arrangiamenti che colpiscono al cuore. una piccola opera d’arte di grande forza espressiva. Bella perché lontana dai soliti canoni. Divertente perché tutti l’hanno incensata indistintamente.
Between The Buried And Me – Colors (2007). Uno degli ibridi migliori di improvvisazione e stacchi jazzati all’interno di trame classicamente death. Il picco evolutivo di una carriera che aveva già qualche disco alle spalle. Piena maturità raggiunta, innovatori in un genere che raramente li ammette. Alta potenzialità.
Burial – Untrue (2007). Questo disco rappresenta la punta di diamante della scena Dubstep, il movimento londinese nato qualche anno che riscrive il dub in chiave future. Prendete una dose di 2step – uk/garage, una di breakbeat, una di tribalismo afro-oriented e irrorate con la spazialità del suono. Burial è su un altro pianeta, rispetto ai colleghi del genere. Una scarica ombrosa ed eterea di passi pesanti e pulsazioni dub.
Alter Bridge – Blackbird (2007). Ha (ri)portato Tremonti sul piedistallo negli States e ha consacrato la voce migliore mai sentita dal post Cornell Soundgardeniano. Trasversale come pochi dischi di rock duro, porta addirittura ad accostare Jimmy Page e il singer Myles Kennedy per una reincarnazione mai avvenuta degli Zep. Splendido, settantiano ed emozionante.
Battles – Mirrored (2007). Uno stupefacente cocktail di math – rock, progressive, elettronica ed influenze noise e postcore racchiuso in rigide partiture modulari architettate con scientifica precisione. E, nonostante il piglio da laboratorio, i pezzi risultano entusiasmanti e alcuni fanno pure muovere la testa. Semplicemente l’album più riuscito, originale e creativo della decade.
Protest The Hero – Fortress (2008). Il mathcore così orecchiabile non si era mai sentito prima. Intricato e allo stesso tempo immediato. Non sappiamo quanta fortuna avranno o quanta fortuna avrà nel prossimo decennio il filone che portano avanti, tuttavia ci vogliono le palle per fare questa roba e riuscire a essere canticchiati anche sotto la doccia. Tanto di cappello.
Portishead – Third (2008). L’atteso ritorno dei maestri del trip hop (con i Massive Attack). Il disco che non t’aspetti perché, invece di andare dietro alle vette musicali che li hanno portati al successo negli anni 90, vanno su terreni più folk-cantautoriali, con forti tinte nere ed industriali. Una novità che spiazza ma ha un’intensità e un’inquietudine più forte di centinaia di altri dischi. Capaci di andare oltre.
Nine Inch Nails – Ghosts (2008). Indubbiamente la band di Trent Reznor è un’icona degli anni ’90. Ma meritano una menzione speciale, più che per meriti musicali, per aver sfondato in questo decennio parecchie porte in campo di business. Dalla promozione viral marketing, ai progetti multimediali fino alle epiche release direttamente in .torrent o al ‘paga come vuoi per il formato che vuoi’, Trent è un visionario, un precursore, un pazzo totale.
Alice In Chains – Black Gives Way To Blue (2009). Il colpo di coda di un gruppo incredibile, capace dopo tanti anni di essere ancora il numero uno nel suo campo. Per quasi tutte le riviste che contano è stato se non IL disco rock dell’anno, tra i primissimi dischi rock del 2009. Layne Stanley, dall’alto, approva sicuramente.
Luca Freddi, Stefano Masnaghetti, Nicola Lucchetta