I 20 dischi rock più importanti del 2017

Tiene banco in questi giorni la musica live, le date e la rincorsa ai biglietti. Ma non dimentichiamo che andiamo a sentire i nostri gruppi preferiti suonare le canzoni che scrivono alla scrivania, su un foglio, che strimpellano al piano o alla chitarra elettrica, e che mettono su disco. Il 2017 è stato un anno di grandi uscite, di alcune sorprese e del ritorno di molti mostri sacri. Facciamo una carrellata usando l’alfabeto, così non si offende nessuno…

ARCANE ROOTS – MELANCHOLIA HYMNS
Il secondo disco degli Arcane Roots è un lavoro eclettico, sperimentale, epico, in perfetto equilibrio tra il dolce-amaro tormento e la ferocia dei primi passi. Qualitativamente a livelli inarrivabili, maestoso e veloce, tecnico e ipnotico, melodico e affascinante. Non stanca mai e ha chilometraggio infinito. Gioiello.

BLACK COUNTRY COMMUNION – BCCIV
Anche se è un progetto neonato ha tutti i crismi di un classico. Per i musicisti in opera (Hughes, Bonamassa, Bonham) e per i suoi ingredienti di rock di alta classe che omaggia le teche raffiguranti la mitologia del genere. Per gli amanti di Led Zeppelin e Deep Purple. Cavalli di razza.

CHARLATANS – DIFFERENT DAYS
Tanti ospiti che provengono dal pop rock britannico di spicco hanno aiutato il gruppo a produrre un disco raffinato e ispirato, da ascoltare a cuor leggero, e che magari aiuta ad alleggerirlo ulteriormente.

DEAD CROSS – DEAD CROSS
Dave Lombardo e Mike Patton richiamano l’attenzione mondiale su questo progetto di noise rock forsennato, una scudisciata di mezz’oretta che lascia interdetti. Patton ricama con furia e urla un progetto nato senza di lui ma abbellendolo come la ciliegina di una torta.

FOO FIGHTERS – CONCRETE AND GOLD
Ecco il primo macigno commerciale del lotto. Un disco che ancora prima che esca una sola nota vende più di tre quarti degli altri citati. C’è altro? Chiaro. Alcuni pezzi entrano diretti tra i classici della band (soprattutto “The Sky Is a Neighborhood”, bellissima). Alzi la mano chi se l’è mangiato appena uscito. Wow, quanti. Alzi la mano chi ancora lo sta ascoltando con continuità. Mmm.

FRANK CARTER & THE RATTLESNAKES – MODERN RUIN
Tanto talento che in questo ultimo lavoro emerge, eccome. Sempre piacevole con il suo tono pulito e melodico ma energico che scivola tra riff hard rock e ammiccamenti commerciali, abbracciando il passato remoto all’insegna dell’hardcore dei Gallows e la leggerezza orientata verso il pop dei Pure Love. Di certo l’atmosfera che si respira in “Modern Ruin” non è delle più serene, ma lascia il segno in profondità.

LIAM GALLAGHER – AS YOU WERE
In questo purgatorio che ci ha reso orfani degli Oasis continuiamo a prendere atto dei lavori solisti dell’uno e dell’altro, tra insulti e uscite fuori luogo. Che dire? Ci ha stupito questo esordio di Liam Gallagher, che si regge in piedi e non barcolla, riuscendo a dare una connotazione seria al progetto. Piacevole e melodico.

MARILYN MANSON – HEAVEN UPSIDE DOWN
Non è più il freak violento di un tempo. Non disdegna qualche urlo e rabbia, ma i suoi dischi adesso sono un susseguirsi di pezzi sornioni che funzionano in un ambito di appagamento melodico con molta elettronica. Provare “Saturnalia” per credere. Anticristo mattacchione.

MASTODON – EMPEROR OF SAND
Lavoro enorme, con un marchio ormai consolidato e una commistione di elementi che rendono unico ogni opera dei Mastodon. Qualche ammiccamento di troppo al mercato rispetto al passato e uno stabilizzarsi della proposta che ha fatto storcere il naso ai fan di vecchia data. I Mastodon non sono più gli outsider del metal, sono diventati un punto di riferimento nel rock. Sul piedistallo.

MORRISSEY – LOW IN HIGH SCHOOL
Ora Morrissey è un attempato scorbutico fracassone che fa incazzare qualsiasi cosa tocchi. Il suo attrito caratteriale, di uno che ama la musica ma odia venderla, risulta in qualche modo credibile in “Low In High School”, un disco malinconico e spiazzante, ma un vero piacere all’ascolto, in puro stile Moz.

NIC CESTER – SUGAR RUSH
Toh, chi si rivede. Lo avevamo visto sul palco con gli Afterhours per la celebrazione di “Hai Paura Del Buio” e ora si presenta con questo album tutto da solo. I Calibro 35 lo aiutano a comporre un disco di gran classe che spazia tra molteplici atmosfere e che suggerisce un’idea immediata di cultura, passione, radici. Lontano dall’immediatezza tamarra dei Jet, “Sugar Rush” è un’esperienza completa e appagante. La barba ti sta bene Nic. Rinato.

NICKELBACK – FEED THE MACHINE
Odiati da molti, amati da pochi. Loro se ne fregano altamente e continuano a produrre musica. Come sempre li apprezziamo di più nei loro momenti più grezzi, duri. Nonostante appunto le ballate siano troppo patinate rispetto ad un tempo, quando picchiano invece hanno sempre un suono compatto e potente che riconosci alla prima nota.

NOEL GALLAGHER – WHO BUILT THE MOON?
Pensavate che una guerra che si rispetti si combattesse da un lato solo? Eccolo qui l’altro fronte. In un perpetuo azzuffarsi tra fratelli, Liam e Noel si rincorrono per cercare di fare l’uno meglio dell’altro. E in qualche modo, ci riescono. “Who Built The Moon?”, miscela sperimentazione e tradizione, con buoni risultati.

QUEENS OF THE STONE AGE – VILLAINS
Josh Homme ha puntato tutto sulla svolta stilistica di questo album, tanto che pare non aver retto la tensione. Però funziona. Mark Ronson produce e mette il marchio nella svolta dance rockabilly dell’ex gruppo stoner. Il risultato è il solito disco sensuale e sfrontato. Si ascolta tutto di un fiato. Non si fa più headbanging, si ancheggia. Per alcuni è una sconfitta. Posseduto dal demone del pop.

QUICKSAND – INTERIORS
Ventidue anni per risentire questa bellezza di suono, granito noise hardcore e post-punk, contaminato da filamenti dorati di melodia. Irrequietezza tutta anni ’90 che ci fa piacere riascoltare, e rivivere. Wormhole emozionale.

ROBERT PLANT – CARRY FIRE
Mitologia vivente numero uno, il cantante dei Led Zeppelin rifiuta ogni concessione a chi gli fa domande pressanti. Vuoi riunire i Zeppelin? No. Vuoi fare musica per la massa? No. Con “Carry Fire” però ritrova una certa pace con la melodia, e molti passaggi progressive e psichedelici che spesso appesantivano gli ascolti dei suoi precedenti lavori solisti vengono tagliati e il suono si fa più essenziale e interlocutorio, ammiccante. Così l’album unisce all’immenso stile di Plant anche una piacevole immediatezza. Bellezza indissolubile.

ROGER WATERS – IS THIS THE LIFE WE REALLY WANT?
Mitologia vivente numero due, torna come un macigno nella realtà sporca che stiamo vivendo, ad infrangere ancora una volta le prepotenze delle minoranze influenti. Creativo, teatrale, è sempre un pungolo sulle coscienze dell’ascoltatore. Libro di testo.

ROYAL BLOOD – HOW DID WE GET SO DARK?
Attesissimo (e a lungo) secondo capitolo dei predestinati. A cosa? Questo secondo lavoro è stato per molti una secchiata di acqua gelida nelle orecchie. I Royal Blood non sono i salvatori del rock, il loro album numero due è ottimo ma non eccezionale come il precedente. Dal vivo funziona benissimo, ci mancherebbe, ma non ci si riesce mai a liberare della sensazione che nel precedente omonimo disco queste canzoni sarebbero tutte b-side. Ma avercene.

THE WAR ON DRUGS – A DEEPER UNDERSTANDING
Altro secondo capitolo atteso anche se di atmosfera completamente diversa. I War On Drugs propongono un’immagine retrò riuscendo ad essere una realtà indie ben ancorata nel panorama attuale, e ammiccando a Bruce Springsteen, Neil Young, Bob Dylan e compagnia bella, riempiono i calici di ascoltatori dal palato fine e lo fanno questa volta con una cresciuta confidenza nei propri mezzi.

U2 – SONGS OF EXPERIENCE
Bono stende i testi di questo nuovo capitolo discografico concentrandosi più sulla sua sfera personale e su un inusuale pessimismo, il che va a cozzare spesso con la produzione ultra pop e patinata del disco. Ma il messaggio di “SOE” è, se non altro all’interno degli ultimi anni di carriera degli U2, uno dei più forti, una volta decifrato tra i chiaroscuri dell’album.