Usciva il 26 febbraio di 26 anni fa il nono disco dei Motorhead. 1916 segnava non solo una (per certi versi) imprevedibile svolta della band di Lemmy Kilmister. L’album permise ai Nostri di affermarsi negli States e portò il frontman stesso a trasferirsi a Los Angeles. Tuttavia questa è solo una scusa per commentare tutta la loro discografia. Esatto, ogni (OGNI) loro cd da studio.
La discografia dei Motorhead album per album
Motorhead (1977) – Il debutto è solo un prototipo di quanto arriverà in seguito, però le basi del loro rock cazzone e sguaiato ci sono tutte. Solo la title track e “Iron Horse/Born To Lose” hanno superato il test del tempo. Bello da riascoltare accoppiato alla lettura delle storie matte del periodo, ma il meglio deve ancora venire. Tra l’altro il disco del ’77 non era altro che la ri-registrazione del debutto dell’anno prima, che l’etichetta United Artists rifiutò di pubblicare. Debutto congelato e fatto uscire nel ’79 col nome di On Parole e ha dentro qualche curiosità come “Vibrator” cantata dal primo chitarrista della band (effettivamente migliore della versione finale), ma che in fondo è la ‘versione demo’ del debutto ufficiale.
Overkill (1979) – Ed eccolo qua, l’inizio e la fine. L’album dei Motorhead per antonomasia. 35 minuti di schiaffi fondamentali per il mondo della musica. Velocità, aggressività, grezzamma. Grandi riff e grandi pezzi, i classici sono tutti qua: la storica cavalcata della title track, “Stay Clean”, “No Class”, “Damage Case”, “Metropolis”…pure la bside “Too Late Too Late” era forte. Curioso come il lancio del disco fosse stato anticipato da un singolo cazzonissimo e sgangherato come la cover di “Louie Louie” (non ha prezzo sentire Lemmy cantare “LUI A LUEI oooo beibe”.)
Bomber (1979) – Avevano questo vizio in quegli anni di sparare album a raffica (non solo loro, tutti). Bomber è assolutamente tra i classici della band ma soffre indubbiamente per la rapidità con cui è stato messo insieme. Ci sono i classici, come la title track e “Stone Dead Forever”, ma si sente che non ha dietro tutto il background e i mesi on the road che hanno portato ad Overkill.
Ace Of Spades (1980) – L’apice del periodo d’oro, se la gioca con Overkill come manifesto della band. Il sound è quello, qui con un tocco di leccatura e professionalità in più grazie alla produzione di Vic Maile. Indubbiamente la title track è il loro pezzo più noto ma tutto il disco è solidissimo e senza cali. Tra i pezzi più memorabili la scheggia “(We Are) The Road Crew”, i riffazzi di “Shoot You In The Back” (adoro come Lemmy urla “Western movies!!”), e l’accoppiata “Bite The Bullet/The Chase Is Better Than The Catch”. Da ricordare di quel periodo anche l’EP con le Girlschool con la divertentissima cover di “Please Don’t Touch”.
No Sleep ‘till Hammersmith (1981) – Tutto l’ essenziale dell’epoca d’oro, il loro disco più venduto, uno dei live più famosi di sempre, la loro dimensione naturale. Gran successo, purtroppo minò un po’ la carriera della band vista la difficoltà a dare seguito ad un disco di tale portata. Tra tutte le versioni e ristampe non ho ancora capito quale sia la versione considerata “definitiva”.
Iron Fist (1982) – L’ultimo disco della lineup classica (Lemmy – Fast Eddie – Philthy Animal), monco, cornuto e mazziato ma piccola gemma di culto. Monco perché finito e raffazzonato in studio, cornuto perché mezzo autoprodotto (male) dalla band stessa, mazziato perché dopo il live best of è quasi impossibile bissare. Ha un sound più grezzo e un’atmosfera più ‘malvagia’, la title track è forse il mio pezzo preferito loro, il resto è andato perduto negli anni ma ha dei momenti interessanti come “Heart Of Stone” e “(Don’t Let ‘em) Grind You Down”. Sta sul cazzo alla band stessa per essere nato male e finito peggio, ma ha la sua schiera di fan dato che è la fine di un’ era e ha un sound comunque bello sporco.
Another Perfect Day (1983) – Esce Fast Eddie, entra Brian “Robbo” Robertson alla chitarra, per uno dei dischi e dei periodi più pazzi della band. L’ex chitarrista dei Thin Lizzy –per quanto talentuoso- si rivelerà più che altro una spina nel fianco. Più vario di Fast Eddie, più organico come chitarrista e più attento al lavoro in studio…ma non la persona giusta per la band. Il disco ha dei sasselli in classico stile Motorhead come “Back At The Funny Farm”, “Dancing On Your Grave” e “Die You Bastard!”, penalizzati però da una produzione poco incisiva e da un sound annacquato a volte grezzo (e non nel senso buono). Ci sono anche episodi che portano novità, con parti strumentali più lunghe, più melodia e strumenti nuovi come “Shine”, “Rock It”, la title track e “I Got Mine”. Ma sono tutti rami morti per un’evoluzione che non è mai avvenuta. Un esperimento fallito per mancanza di alchimia, rimane comunque uno degli episodi più particolari della discografia.
What’s Words Worth? (1983) – Uno degli inutili live che impestano la discografica. Insulsa raccolta di pezzi meno noti da un live del ’78. Purtroppo la band si è sempre fatta fottere da manager ed etichette.
No Remorse (1984) – Per molti IL raccoltone dei Motorhead. Un po’ tutto il loro meglio tra singoli, b-side, live. Ci sono pure quattro inediti che dimostrano un ritorno a sonorità più consone e presentano la nuova lineup con Pete Gill dei Saxon alla batteria e le due chitarre di Phil Campbell e Wurzel (“Killed By Death” la più celebre). Il ristampone del 2010 tira dentro anche chicche sguaiatissime con i Plasmatics di Wendy O. Williams.
Ciò che sono è legato al mio stile di vita e viceversa. Non ho mai finto di essere chi non sono. Mi sono reso conto di avere dei limiti, ma non per questo mi ci voglio arrendere
(leggi qui l’intervista a Lemmy del settembre 2015)
Orgasmatron (1986) – Una ricarica di energie grazie alla nuova lineup e un chiaro ritorno verso territori più sicuri, ma povero di idee e minato da una produzione inadeguata capace al tempo stesso di portare novità non richieste (tipo sabotare “Deaf Forever”) e impastare le chitarre. Ormai il periodo d’oro è passato, ma l’album rimane tra i più noti grazie alla spinta di una nuova generazione di metallari e anche al fatto che fosse praticamente il decimo anniversario della band. Non mancano sassi divertenti e pezzi veloci come “The Claw” e “Mean Machine”, e la stessa title track sarà molto celebre anche nelle mani dei Sepultura…ma ci sono anche pezzi inutili che per qualche motivo la band ha proposto per anni, tipo “Doctor Rock”.
Rock ‘n Roll (1987) – Nonostante il ritorno di Animal alla batteria e la copertina promettente, siamo ad uno dei punti più insipidi della band. Sound un pelo più pulito, aperto, orecchiabile, con le linee vocali in evidenza, ma ben poco di appetibile. Per quanto promossa all’epoca, “Eat The Rich” come singolo, video, film…è giustamente caduta nel dimenticatoio. Poca grinta, poca grezzamma, troppe beghe legali: non un bel modo di chiudere gli anni ’80. Si salvano la title track (forse il più grande concentrato di assoli in un pezzo dei Motorhead) e qualche pezzo minore come “Traitor” e “Dogs” che prova almeno un approccio diverso.
No Sleep at All (1988) – Il live che sta sul cacchio a tutti. E’ un peccato che sia l’unica testimonianza ufficiale live della lineup a quattro, però insistevano con una scaletta che era quello che era (ci buttarono anche la bside “Just ‘cos You Got The Power”, che praticamente è un riadattamento di “Stranglehold” di Teg Nugent) e con suoni non certo esaltanti. Nel ’94 è uscito pure il semiufficiale “Live at Brixton ‘87” che un’altra testimonianza di questo tour…registrata pure peggio.
1916 (1991) – Uno dei più celebri, a tutti gli effetti la loro rinascita, è anche il primo del periodo sotto la Sony e questo è un po’ croce e un po’ delizia. Di sicuro tutta l’aria fresca ha portato ad un disco coraggioso e ottimamente prodotto. I riff svettano e si sentono a dovere, grazie al cielo, e in generale il sound è molto più leccato e pulito, ma il tutto a discapito della grezzamma (e del basso di Lemmy). Non c’è più la fotta selvaggia, e tutti i pezzi veloci sono dei roccherolle classici in salsa Motorhead molto fun e sfacciatamente autoreferenziali (“I’m So Bad (Baby I Don’t Care)”, “Going To Brazil”, “R.A.M.O.N.E.S.”). Gli esperimenti funzionano: riescono a piazzare un ballatone cupo e credibile come “Love Me Forever” e la title track è da lacrime obbligatorie (e testimonia come in fondo Lemmy sia veramente un eroe folk). Per chi cerca i sasselli old-style, da segnalare che meritano parecchio le bside del buon singolo “The One To Sing The Blues”.
March Or Die (1992) – L’idillio dura poco, e March Or Die è forse l’album più loffio, leccato e sfacciatamente mainstream di tutti, anche se in effetti li conobbi grazie alla fichissma “Hellraiser”. Non aiutarono sicuramente dover mandar via per sempre Phil Taylor (ci metterà una pezza -sotto i suoi standard- Tommy Aldridge) e una certa mentalità del periodo che aveva portato diverse vecchie glorie a sedersi sugli allori e succhiarselo un po’ a vicenda con ospitate e controspitate e cercare di fare mera cassetta. E’ un discorso molto più ampio, ma ci sono casi simili lampanti tipo Alice Cooper che fa il botto commerciale con Trash per poi sputtanare tutto con Hey Stoopid. Anyway, il disco ha qualcosa da salvare: oltre ad “Hellraiser” (benvenuto Mikkey Dee), la title track è un pazzesco soliloquio demoniaco di Lemmy e il singolo “I Ain’t No Nice Guy” è una grandissima sorpresa-ballata-folk-qualcosa ci sono pure Ozzy e Slash ed è bellissima fino a quando diventa tamarra. Il resto ha robe brutte brutte, tipo la cover di “Cat Scratch Fever” di Ted Nugent (ma perché mai?!?).
Bastards (1993) – Ma che figata di disco. Scaricati dalla Sony, ripartono assetati di vendetta, finalmente trovando la stabilità nel produttore Howard Benson (che li accompagnerà per i prossimi dischi). Mantengono ottimi suoni e tornano la grezzamma e la potenza: il lato A è inattaccabile, senza cali, e pure il lato B se la cava bene. “Burner” è una macina, “Death or Glory” e “I Am The Sword” sono tra le più tamarre ed esaltanti mai scritte da Lemmy, riescono a piazzare un pezzo serio e angosciante come “Don’t Let Daddy Kiss Me” e “Born To Raise Hell” (un anno dopo riproposta con Ice-T e Whitfield Crane) è l’inno-tributo che li consegna ufficialmente nella leggenda grazie al film Airheads. Lemmy è Dio. Pochi dubbi: uno dei migliori, sicuramente il miglior disco dei Motorhead nella versione quartetto, peccato distribuito da un’etichetta sfigata tedesca che li fece finire nel sottobosco metal e via.
Sacrifice (1995) – Anche per loro, inevitabile il disco ‘grunge’. Dalla moda del periodo prendono i suoni, con dei chitarroni ribassati che vengono dal sottosuolo. E pure la voce di Lemmy è spesso cavernosa e ruttata come non mai. Ma niente lagne grazie al cielo. Per il resto, rimane una mazzata con pochi fronzoli: il disco è breve e pesta, con diversi mid-tempo decisamente ‘marziali’ pure (“War For War”), e si concede il rocherolle (con tanto di pianoforte e fiati) solo con “Don’t Waste Your Time”. Si dice pure che sia il più cafone, tamarro e sconclusionato a livello di testi. La title track è la consacrazione definitiva di Mikkey Dee nella band, la sua Overkill, immancabile dal vivo, sicuramente l’ultimo grande classico della band e il miglior video heavy metal mai girato (grazie Troma).
Overnight Sensation (1996) – Il primo disco della parte finale nella storia della band, di nuovo in trio, il periodo più lungo. La mancanza di Wurzel (da molti dimenticato) può essere sintetizzata dalle parole di Mikkey Dee quando lo definisce “più Motorhead” di tutti gli altri membri messi insieme, il più bravo a scrivere sassi ignoranti. Non che ci sia chissà quale trasformazione, ma il disco è di sicuro il più vario dai tempi di Another Perfect Day. Ci sono ancora classici da pestaggio come “Civil War” (una delle più note del periodo), “Them Not Me” e la divertente rocherolle di “Crazy Like a Fox” ma si fanno anche passi avanti con nuove idee e voglia di rischiare. Al di là di qualche chitarra acustica sparata in giro, ci sono pezzi con approcci melodici nuovi, delle linee vocali fatte e finite dove Lemmy stupisce e non delude per niente, come “I Don’t Believe a Word” (andrebbe bene per Ozzy), la title track e “Broken”. Nelle pieghe del tempo forse è più ricordato per essere quello con Lemmy senza baffi in copertina, ma merita un recupero.
Snake Bite Love (1998) – Passo falso della band, che butta fuori un album poco ispirato e tirato su in un mese circa. Ultimo della tetralogia con Howard Benson in console, forse è un po’ più sporco del precedente ma ha pochi guizzi. Certo è divertente sentir Lemmy biascicare su politici corrotti e le gioie della prostituzione (“Love For Sale”), ma a parte qualche pestello standard (“Dogs of War”) il pezzo che ruba la scena è solo “Assassin”: è una strana rielaborazione di Sacrifice con percussioni tribali buttate in mezzo, una roba decisamente fuori dalle loro corde. Il resto finisce facile nel dimenticatoio.
Everything Louder Than Everyone Else (1999) – Il live della mia generazione, un classico esempio di come ormai si giocasse tutto in Germania. Un buon condensato di oltre 20 anni di carriera, suoni esageratamente loud, peccato che Lemmy non sia al massimo di voce e a volte sbavino un po’.
La gente inizia a parlare di te come di qualcosa da vedere almeno una volta nella vita, tutti iniziano a fingere di conoscerti per moda e la cosa in qualche modo si riflette su vendite e concerti. Succede a tutte le band vecchie, perchè a un certo punto la gente ha paura di non poterti più venire a vedere
(leggi qui l’intervista a Lemmy del settembre 2015)
We Are Motorhead (2000) – Questo è quello di cui ci si ricorda per la cover di “God Save the Queen”. A titolo assolutamente arbitrario, mi viene da dire che da questo momento siano stati considerati a tutti gli effetti ‘decani’ e sia iniziato il tran tran di ‘grandi vecchi’, ‘ogni disco può essere l’ultimo disco’ e così via… Da questo punto di vista la cover dei Sex Pistols (e relativo video) può essere stata di sicuro una grande spinta a farli tornare nell’immaginario roccherolle collettivo, il pezzo ha senso e sembra una gran bella quadratura del cerchio. C’è dell’altro nell’album, uno dei più ‘heavy metal’ della band: la title track funziona come opener del periodo e per il resto è veloce, riffoso e diverte.
Hammered (2002) – Disco un po’ così, che paga –dicono i biografi- per il brutto periodo post 9/11. E’ un disco più lento, più cupo e introspettivo (nel senso che Lemmy ha più cose da dire del solito). E non è neanche male come idea, non è che si deve sempre tirare a sassella, con in particolare “Walk A Crooked Mile” davvero valida…però poco dopo si capisce che non c’è fun e si rimane impantanati (se non per la cavalcata “Red Raw”). Salva tutta la baracca la collaborazione con la WWE e uno dei loro wrestler di punta Triple H, la cui musica d’ingresso “The Game” (presente nelle bonus track) è di sicuro il pezzo dei Motorhead più noto degli ultimi 15 anni. Non si trovano sui loro dischi, ma negli anni successi collaboreranno ancora con la WWE per “King of Kings” (ancora per Triple H) e l’ottima “Line in the Sand” del team Evolution.
Inferno (2004) – Quando ti dicono che, in fondo, i dischi di una band sono tutti uguali…cosa contraddistingue i migliori? A me piace usare una parola sola: l’ispirazione. Trovato il produttore pronto a prenderli a calci in culo, Lemmy e soci (e pure ospite Steve Vai in un paio di pezzi) tirano fuori i riff giusti, i ritornelli giusti, le linee melodiche giuste. Insomma i pezzi del puzzle sono tutti al loro posto e viene fuori non solo il miglior disco prima della fine, ma anche un disco che merita di stare con i classici, che ancora fa sentire la fame di rock e la voglia di guidare veloci e fare danni in giro. Già l’apertura piazza un trittico (“Terminal Show”, “Killers” e “In The Name of Tragedy”) che lascia il sorrisone ebete stampato in faccia. Non manca il rocherolle come piace a loro di “Life’s a Bitch” e altri pezzi godibili come “In the Year of the Wolf”. Pure il pezzo conclusivo e fun “Whorehouse Blues” è un country acustico perfetto, venuto così bene che ci fecero pure il video.
Kiss of Death (2006) – Squadra che vince non si cambia, ma impossibile bissare un sasso come il precedente. Manco ci provano, dato che il loro undicesimo disco ha suoni più rotondi, una produzione più pulita…e in generale è uno dei loro che cerca di puntare più sulla melodia e sull’orecchiabilità. Soffre per il gran predecessore ed è un po’ un diesel, ma non è da buttare. Ci sono delle soluzioni melodiche inedite per i Motor e qualche chitarra interessante, soprattutto nella parte centrale con “Trigger”, “Under The Gun” e “God Was Never On Your Side”. Mi piace pensare che Lemmy, sbevazzando in giro per L.A., abbia trovato per strada e coinvolto il chitarrista dei Poison e il bassista degli Alice in Chains, non mi spiego altrimenti. E’ da recuperare, anche perché all’epoca fu oscurato (ancora una volta) dalla b-side, in questo caso la cover di “Whiplash” dei Metallica.
Motorizer (2008) – Forse l’ultimo lavoro della band con Lemmy completamente ‘in salute’, non è niente di speciale ma rimane godibile. Ha una buona orecchiabilità e mediamente scorre giù liscio, a partire dall’openere “Runaround Man” e costellato di pezzi godibili come “Rock Out” (come si va a non volere bene ad un pezzo che proclama “Rock out with your cock out”). Chiude anche il cerchio a livello di suoni, un buon equilibrio tra potenza e pulizia…forse vittima delle mode del periodo (leggi suoni compressi) ma inevitabilmente accattivante. Tra celebrazioni, nostalgia e partecipazioni a tormentoni come Rockband e Guitar Hero, nel 2008 vengono ri-registrati e ri-proposti classici come “Ace of Spades”, “(We Are) The Road Crew” e “Killed By Death”.
The World Is Yours (2010) – L’inizio della fine, il trittico finale di dischi è quasi un colpo di coda con un ritorno di grezzamma ed energia. TWIY è un altro dei picchi quasi-metal (“Devils in my Head”, il mid-tempo “Brotherhood of Man”), parecchio roccherolle (“Rock’n’Roll Music”) e con in più un pizzico di inedito groove nei riff (vedi l’opener “Born To Lose”). Pur essendo sempre lo stesso i produttore dell’ultima serie di dischi (Cameron Webb) questo è l’ultimo coi suoni ‘maranza’.
Aftershock (2013) – E’ un colpo al cuore sentire la voce di Lemmy che inizia a rompersi, ma è una lotta di grinta e voglia di rompere ancora culi. Molti pezzi (14, forse un record) mediamente più brevi del solito, suoni più corposi e robusti e un approccio e un sound più vecchia scuola che porta addirittura a certe uscite più simili…agli ZZ Top. Può sembrare assurdo ma sono episodi interessanti, chissà cosa avrebbe potuto dare la band dando sfogo al lato più blues, magari col solista di Lemmy che non è mai arrivato.
Bad Magic (2015) – La fine, la chiusura. Un quasi ritorno alle origini con una registrazione grezza, ronzate, con la voce con un piede già nell’oltretomba. E’ un urlo finale liberatorio, è più i suoni si fanno pessimi, cacofonici, da cantina, ronzanti e fastidiosi, più viene il sorriso sulle labbra. Si mena per tutto il tempo, si cavalca, appare pure Brian May (!) per un istante. Calzante e perfetto il finale dei finali con la cover di “Sympathy For The Devil”, bello sentire le ultime strofe di Lemmy su un pezzo simbolo della sua generazione.
Marco Brambilla