Tutte le volte che mi capita di scrivere dei Red Hot Chili Peppers, penso di essere la persona più indicata. Ma anche la meno indicata a farlo. Mi spiego: conosco Kiedis e soci come le mie tasche, ma al tempo stesso, quando si parla di loro, l’amore cieco e incondizionato scaccia a pedate quel poco senso critico che alberga in me. Ma siccome alla domanda “che ne dici di scrivere un pezzo sulla discografia dei Red Hot?” ho risposto con un entusiasmo da ultrà ubriaco, cercherò di essere il più obiettiva possibile.
E di aiutare a districarsi tra le (non molte in realtà) produzioni della band chi come me sarà sia a Bologna che a Torino i prossimi 8, 10 e 11 ottobre a seguire il The Getaway Tour 2016. Dando un’occhiata alle setlist degli ultimi live dei RHCP, l’impressione è che anche i Nostri abbiano voglia di rispolverare qualche chicca del passato, oltre ai successi colossali che sono diventati parte della cultura musicale anche di chi, per scelta o meno, non ce l’ha. E ovviamente, ai nuovi pezzi estratti da “The Getaway”.
The Red Hot Chili Peppers (1984)
I Red Hot quando non erano ancora i Red Hot. O quando erano ancora troppo strafatti per capire chi fossero. Ascoltare questo disco oggi, alla luce di tutto quello che è successo dopo, potrebbe essere un grandissimo shock per chi conosce la band losangelina solo per “Californication”. Ma togliendo la produzione, un paio di membri (Jack Sherman alla chitarra e Cliff Martinez alla batteria) buttati lì a caso e pezzi nonsense, “The Red Hot Chili Peppers” è stato il primo disco a ingabbiare l’energia primordiale di un gruppo di junkies sulla buona strada per entrare nel Club 27.
Freaky Styley (1985)
Qui si inizia a ragionare. Finalmente arriva il buon Hillel Slovak alle sei corde, e il guru del funk George Clinton, che produce un disco con una venatura afro oggi del tutto accantonata (o dimenticata) dai Red Hot Chili Peppers. Chi prende davvero il volo in “Freaky Styley” è Flea, facendo cose dell’altro mondo con il basso (“American Ghost Dance”). Ma anche Kiedis inizia a scrivere testi importanti, tipo “Catholic School Girls Rule”, in cui sottoscrive che le figlie di Maria… va bè, chiudete voi la frase.
The Uplift Mofo Party Plan (1987)
Nonostante sia uno degli album più sottovalutati dei Red Hot, “The Uplift Mofo Party Plan” è il disco che segna la svolta. Finalmente alle pelli arriva Jack Irons (un nome che i fan dei Pearl Jam non possono ignorare) e musicalmente, si inizia ad annusare la piega che la band avrebbe preso di lì a qualche anno. Certo, il rappettone grezzo, il funk pulsante e la goliardia ci sono sempre, ma l’apertura verso la melodia pop è un cambio di rotta epocale nell’economia della formazione (“Behind the Sun” e “Walkin’ on Down the Road” ne sono gli esempi più lampanti).
Mother’s Milk (1989)
Alla fine, qualcuno nel Club 27 non ci è entrato per un soffio. Ma ci ha comunque rimesso le penne. E quel qualcuno era Hillel Slovak, il ragazzo prodigio della chitarra e miglior amico di Anthony Kiedis. Come se non bastasse, a causa del trauma, Jack Irons molla la band e i Nostri si trovano in brache di tela da un giorno all’altro. Ma in appena un annetto scarso i sopravvissuti riescono a uscire (più o meno) dal tunnel della droga e a raccattare tali Chad Smith e John Frusciante per rimpiazzare i pezzi mancanti. E non solo, danno alle stampe un lavoro che, per molti, è il primo disco dei Red Hot come li conosciamo oggi. L’amore per la musica black c’è sempre, ma a fare la differenza sono la freschezza e l’immediatezza di “Knock Me Down” e “Taste the Pain”. Poi vi svolterò la giornata dicendovi che quegli zarri dei Crazy Town hanno campionato la strumentale “Pretty Little Ditty” per la loro (unica) hit “Butterfly”.
Blood Sugar Sex Magik (1991)
San Rick Rubin inizia la sua collaborazione con i Red Hot Chili Peppers, contribuendo a lanciarli nel cyberspazio del rock. Le alchimie tra i membri della band sono al top, e si sente. Sangue, zucchero, sesso e magia si fondono in un disco che segna un punto di non ritorno, l’apice del successo di una band che finalmente ce l’ha fatta. Per un motivo o per l’altro, tutti i pezzi di “BSSM” sono potenziali singoli. C’è ancora il funk in “Funky Monks”, un’inedita introspezione in “I Could Have Lied”, l’hard rock in “Suck My Kiss”. E “Under the Bridge”, la canzone che sanno anche i sassi (e le All Saints, putroppo). Parte un tour colossale, ma l’idillio è destinato a spezzarsi ben presto.
One Hot Minute (1995)
Nel 1992 John Frusciante lascia la band per la prima volta, e i Red Hot finiscono ancora a gambe all’aria. Kiedis ricasca nella dipendenza. Ma arriva Dave Navarro. Secondo me, “One Hot Minute” è il disco più sottovalutato dei Nostri. Ok, l’impronta di John Frusciante è unica e caratteristica, e non averla più può essere un problema. Il bagaglio di esperienza (oltre all’immagine ambigua) portato da Navarro però spinge la band oltre i confini, in territori più cupi e claustrofobici, più heavy (“Warped” da questo punto di vista è una bomba). “One Hot Minute” non è il solito disco allegrone dei RHCP. Si parla di solitudine, dipendenza, tradimento, morte. Cose poco carine, ancora di più per chi apprezza solo ed esclusivamente il lato cazzone dei Red Hot.
Californication (1999)
Navarro però non funziona. Ma, deus ex machina, nel 1998 John Frusciante torna timidamente sui suoi passi, portando i ritrovati compagni di avventure sulla via della consacrazione (se non altro commerciale) assoluta. “Californication” è il disco più radiofonico dei Nostri, non solo per la title track, ma per la sua totalità. La California, il sole, il surf, le donne e le melodie killer: ce n’è per tutti. La nuova trasformazione è profonda e radicale. Kiedis sfoggia un inedito taglio di capelli e non si vergogna di mettere a nudo le sue cicatrici. Il video di “Scar Tissue”, proprio per questo, ha fatto scuola.
By the Way (2002)
Se per molti la delusione del secolo è stata “One Hot Minute”, per me lo è stata “By the Way”. Più lo ascolto più mi rendo conto di quanto sia un disco orecchiabile sì, ma senza anima. Pop rock di altissimo livello ma nulla di più. Anthony Kiedis era giù di corda per la fine di una delle sue storie più importanti, e siccome “misery loves company”, ha trascinato nel baratro pure tutti gli altri. Neanche il fido Rick Rubin riesce a fare la magia. Ma tant’è, la gente si piglia bene quando ascolta “Can’t Stop”, quindi va benissimo così.
Stadium Arcadium (2006)
Dopo essere spariti per quattro interminabili anni, i Red Hot tornano con un disco doppio, “Stadium Arcadium”, che non sarà un capolavoro, ma per fortuna è lontano anni luce da “By the Way”. I pezzi buoni ci sono, l’ispirazione pure, i singoloni (tipo “Snow (Hey Oh)”) ci sono sempre, si lascia un po’ di respiro anche alle radici funk (“21st Century “), c’è anche spazio per qualche sfuriata alt rock (“Torture Me”). Ma dopo questo tripudio di creatività, John Frusciante lascia la band per la seconda volta.
I’m With You (2011)
A sto giro però, il trademark RHCP è molto più forte rispetto al 1992, e la band risponde allo shock con una calma quasi zen. Talmente zen che ci hanno messo cinque anni per sparare fuori “I’m With You”. Tempo di raccattare un chitarrista clone di Frusciante, Josh Klinghoffer, e il gioco è fatto. “I’m With You” è un disco piacevole, ma gli manca quel nonsoché per rimanere nella memoria fin dal primo ascolto.
The Getaway (2016)
Piaccia o no, questo è il disco della maturità. Il cambio di produttore (Danger Mouse) ha fatto tanto. Così come l’età anagrafica dei Nostri. Trainato dal singolo “Dark Necessities”, “The Getaway” naviga come una barca a vela, verso il tramonto, trasportata lievemente dalle onde. La mia più grande curiosità è la resa live di questo disco. Ci vedo poco una band muscolare come i Red Hot alle prese con le finezze di pezzi alla “Dreams of a Samurai”, ma so che il ritmo danzereccio di “Go Robot” sarà una garanzia dal vivo.
Chiara Borloni