E’ con il terzo album che Angelo Branduardi riesce, finalmente, a guadagnare un clamoroso successo popolare; uscito verso la fine del 1976, “Alla fiera dell’est” sarà il quinto disco più venduto in Italia durante l’anno successivo, grazie al traino fornitogli dal fenomenale motivo della title – track, ispirata ad un canto pasquale ebraico. Branduardi, diplomato in violino al conservatorio e cresciuto nella Genova dei cantautori, è voce atipica nel panorama della musica italiana del tempo: al contrario di molti suoi colleghi, preferisce evitare l’impegno militante e il modulo del “cantautore con chitarra” e impegnarsi nella riscoperta di suoni lontani nel tempo, rileggendo non solo il folk celtico, la cui rinascita stava avvenendo in quegli anni, ma anche forme e stili musicali risalenti al nostro Rinascimento, antiche danze popolari e persino le melodie medievali di trovatori e minnesanger. Nascono così ballate che, a livello lirico, traggono spunto dalle fiabe, dalle leggende e dai miti di tutto il mondo, mentre a livello sonoro rianimano strumenti dimenticati come arpa, liuto e chiarina, affiancandoli ai più consueti chitarra, basso, batteria e tastiere e non disdegnando neppure un tocco esotico assicurato da sitar e bouzuki; su tutti, svetta ovviamente il violino di Angelo, che intona favole e filastrocche di arcana bellezza, spesso più profonde di quanto un primo ascolto possa far intuire. “Alla fiera dell’est” vincerà il Premio della Critica Discografica Italiana nel 1977, giusto riconoscimento ad un artista preziosissimo e fuori dal coro, che nell’arco dell’intera carriera non ha mai smesso di raccogliere narrazioni e suggestioni dai quattro angoli del mondo ed ha continuato a studiare il patrimonio musicale medievale, rinascimentale e barocco con vigore e rigore rari a trovarsi.
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