Il successore di “Alla fiera dell’est” (1976) è, ancora una volta, un grande successo di classifica. Quel che qui preme sottolineare è però la straordinaria caratura artistica delle canzoni di Branduardi, fra i pochi a riuscire nell’impresa di coniugare successo popolare e ricerca musicale: un privilegio riservato solo ai più grandi. “La pulce d’acqua” segue in tutto e per tutto lo stile del predecessore, migliorandolo. Angelo non dispone più del liuto nella sua tavolozza sonora; in compenso lo viene a trovare Luigi Lai, fra i più grandi suonatori di launeddas (tipico strumento aerofono sardo), il cui timbro rinvigorisce “Ballada in fa diesis minore”, magistrale rilettura della melodia medievale “Schiarazula Marazula” innestata su di un testo che prende spunto dalle coeve danze macabre e che, nelle mani del cantautore genovese, diviene un potentissimo esorcismo della morte. La bravura di Branduardi è proprio quella di traslare nel presente forme musicali appartenenti al passato, facendole apparire più vive che mai grazie ad arrangiamenti che mandano in cortocircuito tempo e spazio: accade soprattutto ne “Il ciliegio”, rielaborazione di una ballata britannica medievale in cui, però, compare una slide guitar dal gusto country, che mette delicatamente in contatto il folklore Angloscozzese con quello della Frontiera Americana. Ma è tutto il disco a non presentare punti deboli, cucendo assieme con mano fatata leggende buddiste e armoniche western, romanticismo inglese e sitar indiani, in quello che probabilmente rimane il capolavoro assoluto del musicista.
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