Quando uscì l’esordio “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”, gl’inglesi Arctic Monkeys vennero salutati come un ottimo esempio di post punk revival; hype alle stelle per una band che avrebbe potuto essere l’ennesima meteora pompata dal NME. Invece no. Nel corso di un lustro Alex Turner e soci non stanno fermi, sfornano album a nastro e, seppur sbagliando a volte, edificano un sound personale, riconoscibile fra mille. Arrivano quindi al quinto atto, “AM“, la loro miglior opera dai tempi del debutto. Moltissimi i richiami presenti nelle 12 tracce che lo compongono, dal rock anni Cinquanta a dosi piuttosto massicce di soul passando per una rilettura del tutto originale del garage sound dei Sessanta. La sensazione più forte è di aver a che fare con l’apice assoluto di una ricerca compositiva e di suoni iniziata con “Humbug” (2009), il lavoro che per primo li traghettò ben al di là del mero revival new wave. Sono molti gli highlight contenuti in questo dischetto: e oltre ai celebri singoli, da “Do I Wanna Know?” a “Why’d You Only Call Me When You’re High?” passando per la roccheggiante “R U Mine?”, si segnalano soprattutto “Arabella”, la ritmicamente possente “Fireside”, “Snap Out Of It” e il finale emotivamente esaltante di “Knee Socks”. “AM” rappresenta la maturità raggiunta dal quartetto di Sheffield, punto d’arrivo certo, ma probabilmente temporaneo. Un’opera in cui l’abilità nel fondere generi distinti e la capacità di reinventarsi non mortifica affatto il dono di saper scrivere hit dal grande successo.
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