A seguire il precedente “Darwin” (1972), opera intricata, complessa ed interessante, ma sin troppo cervellotica e irresoluta, il Banco pubblica quello che assieme al debutto omonimo rimarrà il suo capolavoro. Il titolo dell’album e quello della lunga traccia d’apertura, “Canto nomade per un prigioniero politico“, mostrano il complesso romano all’apice del proprio impegno politico. Nel suo insieme, “Io sono nato libero” media perfettamente fra il piglio aggressivo e vicino all’hard rock dell’esordio e il taglio più sperimentale di “Darwin”. Gli intrecci strumentali orchestrati dai fratelli Nocenzi sono stupendi, e non da meno è la voce di Francesco Di Giacomo, qui meno baldanzosa che in passato ma ancor più lirica e sofferta. Fra i cinque brani quelli che brillano maggiormente sono la delicata ballata acustica “Non mi rompete”, inusitata per i canoni della band, l’inquietante e oscura “La città sottile” e, sopra a tutto, i 15 minuti del “Canto nomade…”, in cui a seguire il testo ‘militante’ declamato da Di Giacomo viene presentata un’estesissima sezione strumentale, nella quale il Banco è libero di dar sfogo a tutta la sua fantasia come mai prima d’allora, fra parti violentemente percussive, citazioni di flamenco, qualche ingenuità elettronica e fughe chitarra/tastiera tra le più riuscite di tutto il progressive rock. Un disco che ha fatto la storia del ‘pop’ italiano dei Settanta.
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