Ai tempi della sua pubblicazione, il primo disco di post – hardcore vero e proprio riscosse soltanto un tiepido successo persino all’interno dell’underground. Solo recentemente è stato riscoperto, ma in questi casi il revisionismo storico non è solo cosa buona e giusta ma, addirittura, insufficiente. “Umber“, senza mezzi termini, è un capolavoro assoluto, e nessun ripescaggio potrà rendere giustizia all’ingiustizia commessa ai tempi da critica e pubblico nei confronti dei Bitch Magnet. Ma come suona? In estrema sintesi, umanizza le scariche meccaniche dei Big Black tramite riff hard rock, che nelle armonie realizzate da chitarra, basso e batteria vengono portati a collidere con la durezza del punk e con aperture melodiche rubate al miglior indie rock dell’epoca, senza dimenticare spunti al confine col progressive. Così, le botte soniche di “Goat-Legged Country God”, “Navajo Ace”, “Joan Of Arc” e “Joyless Street” risultano al contempo violente e astratte, della consistenza della roccia eppure volatili. Si arriva così all’alternanza pieno/vuoto di “Clay” e alla dilatazione psichedelica di “Douglas Leader” e “Americruiser”, anteprime assolute di quello che sarà il post rock di Slint ed epigoni vari. Le parti vocali sono spesso mero contorno, e nei rimbombi ‘garagecore’ (uno dei riff più emozionanti di sempre) di “Motor” somigliano a una versione anemica di quelle dei Dinosaur Jr. L’importante sono le sovrapposizioni strumentali, semplicemente perfette. Un album da avere assolutamente, magari all’interno del cofanetto contenente anche “Star Booty” e “Ben Hur“, così da possedere l’intera discografia di una delle band statunitensi più geniali di sempre.
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