Black Sabbath – 13

Era quasi illogico aspettarsi un disco così dopo 35 anni dall’ultima volta che i quattro di Birmingham si erano visti in studio. Fra l’età media, gli acciacchi di Ozzy e la malattia di Iommi tutto sembrava congiurar male. In più, la lite con Bill Ward e il successivo abbandono del progetto da parte del batterista pareva avessero affossato le ultime speranze di poter riassaporare il suono dei Black Sabbath, quello che più di ogni altro ha plasmato l’heavy metal, in tutta la sua gloria. Invece “13” si rivela un disco ispirato e vissuto in profondità dalla prima all’ultima nota, andando al di là delle aspettative di quasi tutti (eccezion fatta per qualche pazzo che forse si aspettava un nuovo “Master Of Reality”) e fugando ogni sospetto sul fatto che potesse esser stato architettato come mero espediente per riportare in tour la band. No, non è così, si percepisce che Tony Iommi, Ozzy Osbourne e Geezer Butler hanno creduto davvero in questa loro ennesima fatica (in tutti i sensi, data l’anagrafe del trio), scrivendo 8 brani (11 nella deluxe edition) capaci di far baluginare alle orecchie i primi capolavori dei Settanta, quelli che spostarono per sempre la rotta della musica pesante. Chiaramente non si sta parlando di un capolavoro, ma i riff prodotti dalla sei corde di Iommi hanno ripreso quell’inimitabile spessore che da tempo avevano smarrito, e di conseguenza le cose hanno ripreso a girare per il verso giusto. Non si va oltre “Vol. 4” del 1972 in quanto a ricerca sonora, ed è giustissimo così. “Zeitgeist” ricorda “Planet Caravan”, “Loner” richiama “N.I.B.” e la doppietta iniziale “End Of The Beginning/God Is Dead?” riassume in poco più di un quarto d’ora i primi due dischi, e va benissimo così. Se poi nella scaletta c’è anche una bomba come “Damaged Soul”, blues jam acidissima con tanto d’armonica (una sorta di “Warning” mixata con “The Wizard”), chiedere altro sarebbe un imperdonabile peccato di tracotanza. E un “bravo” va anche a Brad Wilk, perfetto dietro le pelli.

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