I Can sono stati il gruppo alieno del krautrock. Nel senso etimologico del termine: non c’era correlazione fra il loro suono e quello degli altri musicisti, sia tedeschi sia soprattutto del mondo anglosassone. Questa totale alterità derivava dalla particolare alchimia della band, composta da due ex allievi di Stockhausen (Holger Czukay al basso e Irmin Schmidt alle tastiere), un batterista proveniente dal jazz (Jaki Liebezeit), un chitarrista d’estrazione rock (Michael Karoli) e un outsider totale alla voce (il giapponese Damo Suzuki, che in questo album rimpiazza il dimissionario Malcom Mooney, tornato negli States dopo i primi due dischi assieme al complesso di Colonia). E allora il grandioso doppio vinile “Tago Mago” si ritaglia uno spazio tutto suo, centrifugando psichedelia, progressive, funk e jazz in un contesto prepotentemente d’avanguardia, osando l’inosabile nel mettere in correlazione la musica atonale, dodecafonica e seriale con il mondo del rock attraverso una cura scientifica nella combinazione dei suoni. Musica glaciale, misteriosa, fatta di luce e d’ombra, che ha nel funk robotico e ossessivo di “Halleluhwah” (oltre 18 minuti) e nella sperimentazione per musica concreta, tribalismo percussivo e voci mantriche di “Aumgn” (oltre 17 minuti) i suoi due momenti supremi. “Tago Mago” avrà un’influenza sterminata sull’industrial, il noise e gran parte della new wave. Ma arriverà ancora più in là nel tempo: ascoltate l’inizio di “Subterranean Homesick Alien” dei Radiohead e confrontatelo con l’incipit di “Aumgn”; il debito di Thom Yorke e compagni nei confronti dei Can balza alle orecchie.
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