Verso la metà degli anni Ottanta, quando il demone dell’ipervelocità thrash pareva dominare incontrastato il mondo del metal più pesante ed estremo, pochi erano coloro i quali si sottraevano al dogma del riffing mozzafiato per perseguire la lentezza estenuante di certi Black Sabbath. Fra le formazioni più notevoli, si potevano scorgere i Saint Vitus, i Trouble e i veterani Pentagram (attivi sin dall’inizio dei Settanta ma arrivati al traguardo del primo album solo nell’85); quelli che però riuscirono a smuovere maggiormente le acque e a creare un vero e proprio sottogenere a sé stante, il doom metal, furono i Candlemass, band svedese fondata dal bassista Leif Edling che con l’esordio “Epicus Doomicus Metallicus” mise subito a segno una pietra miliare di questo particolarissimo stile musicale. Il latino maccheronico del titolo dice bene del contenuto: classici del calibro di “Solitude”, “Demons Gate”, “Black Stone Wielder” e “Under The Oak” non vivevano solo di tempi rallentati e chitarra, basso e batteria rimbombanti, ma sapevano anche tessere riff scultorei e assoli altisonanti, che uniti al canto potente e stentoreo di Johan Längqvist davano un tocco di oscura epicità ai paesaggi gotici di queste elucubrazioni ossianiche su morte, dolore e solitudine. Il filone doom genererà mostri ben più minacciosi dei Candlemass, ma la loro rimane un’esperienza fondamentale.
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