Il funk/rock robotico del precedente “Station To Station” (1976), la cui title – track citava i Kraftwerk, aveva già lasciato presagire la nuova mutazione di Bowie. Che si concretizza pienamente solo nella trilogia berlinese, il cui epilogo (“Lodger” del 1979) è poco significativo, mentre i primi due capitoli rimangono il vertice assoluto dell’artista. In “Low” ed “Heroes“, usciti a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, si rivela fondamentale la collaborazione dell’iperattivo Brian Eno, che permette all’ex Duca Bianco di creare quella spaventosa mutazione del rock in senso androide che informa i primi lati di entrambi gli album: tracce come “Speed Of Life”, “Sound And Vision”, “Always Crashing In The Same Car” su “Low” e, ancor di più, “Joe The Lion”, “Blackout” e la title – track su “Heroes” liofilizzano il calore umano di questa musica in gelidi spruzzi di chitarre trattate, ritmi cibernetici e synth iridescenti. Ancora più coraggiose le facciate B dei due LP: qui il rock sparisce del tutto, per lasciare spazio all’ambient music glaciale di “Warzawa” e a quella commossa di “Subterraneans” (da “Low”), alle scansioni kraute di “V-2 Schneider” e infine agli abissi di solitudine che squarciano “Moss Garden” e “Neuköln”. Si tratta di due opere impossibili da scindere, entrambe fondamentali per lo sviluppo della new wave più creativa e della musica elettronica più intrigante. È Bowie stesso a descrivere il carattere di entrambe meglio di chiunque altro, affermando che “Heroes” (ma vale anche per il predecessore) “denuncia l’inesorabile infiltrazione della mostruosità aliena nella normalità del quotidiano“. Ogni altra parola sarebbe superflua.
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