Annoverabile fra i più grandi successi degli ELP, “Trilogy” è anche il loro lavoro più equilibrato, apprezzabile pure a quarant’anni di distanza, con la buriana del pop/prog sinfonico ridotta a reperto archeologico. La foga di Emerson alle tastiere viene mitigata dall’apporto più consistente dei suoi due compagni; si neutralizzano così gli sbrodolamenti pacchiani e barocchi, e persino “Abaddon’s Bolero” vede Keith contenersi e sfoderare solamente le sue indubbie qualità di virtuoso, senza cadere nella tentazione di strafare. Belli i momenti romantici dispensati da “From The Beginning”, quelli misteriosi contenuti nella prima parte di “The Endless Engima” e quelli spensierati che pervadono “Hoedown”, rilettura di “Rodeo” del compositore statunitense Aaron Copland. Anche quest’ultima scelta testimonia il momento di grazia vissuto dalla band, che invece di scomodare i soliti nomi pesca dal mazzo della musica classica una carta poco sfruttata. “Trilogy” chiuderà al decimo posto della classifica italiana del 1972.
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