Quando uscì, l’esordio omonimo di questa band di Seattle sembrava un po’ fuori dal tempo. Certo, indie folk del genere s’era già sentito, ma spesso alterato nella variante freak dei Devendra Banhart e simili; invece in “Fleet Foxes” non c’era nulla di tutto questo. Fra litanie pastorali ed echi bucolici sembrava di stare a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, su di un’altalena spinta da una parte dai Beach Boys e Crosby, Stills, Nash and Young dall’altra. Il segreto dei Fleet Foxes era l’essere davvero al di fuori del tempo. Probabilmente per questo l’album piacque subito a pubblico e critica (quest’ultima si sprecò in lodi sperticate, a posteriori persino eccessive). Dopo tanto folk mutato, dei ragazzini provenienti da quella che neppure vent’anni prima era stata la città del grunge arrivavano a ristabilire la tradizione delle armonie West Coast di anni ormai lontani. La marea che provocarono non s’è ancora arrestata.
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