Herbie Hancock – Head Hunters

Nuovo scandalo nel mondo del jazz. Dopo l’elettrificazione di stampo rock che Miles Davis ha donato a questa musica nei suoi ultimi dischi, ci pensa un altro grandissimo jazzista – nonché ex pianista della band di Miles fino ai tempi di “In A Silent Way” (1969) – a provocare ulteriore disgusto fra i puristi più ottusi, deliziando invece chi cerca semplicemente musica interessante. In verità Herbie Hancock, ideatore negli anni Sessanta di alcuni capolavori di jazz acustico come “Maiden Voyage” (1965), si era già lanciato nella fusion e nel jazz – rock non solo a fianco di Davis, ma anche in qualità di bandleader, attraverso lavori quali “Crossings” (1972) e “Sextant” (1973). Tuttavia questi album erano caratterizzati da sonorità aspre e spigolose, poliritmi complessi e cervellotici, una tenebrosità di fondo che aveva ormai annoiato Hancock, desideroso di esprimersi tramite suoni più semplici, solari e ‘divertenti’. Ecco allora “Head Hunters“, disco che abbandona ogni riserva nell’accostarsi al funk e alla black music ‘commerciale’ del periodo. Il ritmo si distende e il groove aumenta, Herbie passa dal piano elettrico ai sintetizzatori con estrema nonchalance, gli assoli dei fiati di Bennie Maupin (altro musicista proveniente dalla diaspora davisiana) si fanno diretti e squillanti, meno oscuri, mentre la sezione ritmica macina battute con una scioltezza e precisione invidiabili. Tutti i quattro brani presenti nell’opera meriterebbero di esser citati, ma i due fondamentali rimangono l’apripista “Chameleon”, in cui un tema di fortissima incisività viene sviluppato nel corso di un quarto d’ora di fuochi d’artificio timbrico – armonici, e la rilettura di una delle composizioni più fortunate di Hancock, “Watermelon Man”, qui resa in senso tribale e ‘africanista’, e non a caso introdotta dal suono dell’hindewhu, flauto utilizzato dalle tribù pigmee. “Head Hunters” otterrà un successo clamoroso, raggiungendo il disco di platino. Ma quello che lo farà passare alla storia sarà la sua influenza su gran parte della futura musica afroamericana, e non solo. Dopo l’avvicinamento fra jazz e rock avvenuto con Davis, ora anche fra jazz e funk è possibile instaurare un dialogo. Herbie Hancock ha vinto la sua sfida.

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