“Closer” esce il 18 luglio, a due mesi esatti dal suicidio di Ian Curtis. Il leader e cantante dei Joy Division dava già da tempo segni di irrimediabile malessere, tutti minuziosamente raccolti in quest’opera, epitaffio funebre più che semplice disco, a partire dalla copertina passando per musica e testi. Il passo marziale disturbato da freddi rumori metallici dell’apripista “Atrocity Exhibition” spalanca la visione sulle malebolge interiori di una persona sempre più afflitta, il cui canto è ormai ridotto a una monotona cantilena d’oltretomba (cfr. “Passover”). Rispetto a “Unknown Pleasures” l’atmosfera è meno segnata dagli scatti del punk, chitarra, basso e batteria sono ancora aspre e taglienti ma ormai navigano in un limbo pulviscolare che priva della volontà e invita all’oblio. In “Colony” e “A Means To An End” si assiste a qualche improvvisa impennata vocale di Ian, in “Twenty Four Hours” gli strumenti si scaldano a scossoni: tutti fuochi di paglia. “Closer” (più vicino alla morte?) sfuma nell’elegia per pianoforte di “The Eternal” e infine nel gelido addio di “Decades”, la ballad post – punk più depressa di sempre, in cui il suono delle tastiere si fa spaventosamente spettrale. Dopo, il ricordo che si conserva è quello di aver ascoltato qualcosa di emotivamente insostenibile. I Joy Division senza Curtis si ribattezzeranno New Order, e sarà tutta un’altra musica.
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