A più di trent’anni di distanza, si può affermare piuttosto tranquillamente che il primo Joy Division è stato il disco più influente e preveggente dell’intero carrozzone post – punk/new wave. La voce tenebrosa di Ian Curtis, il basso in primo piano di Peter Hook, la batteria minimale di Stephen Morris e la chitarra secca di Bernard Sumner (a cui a volte affiancava tastiere dal retrogusto acido e/o rumoristico) hanno saputo squarciare il Velo di Maya di un mal di vivere non per forza circoscritto all’ambito di provenienza del gruppo (l’Inghilterra in recessione di fine anni Settanta), piuttosto accresciuto nel corso degli anni tanto da diventare universale e quasi metafisico, simbolo di definitivo laceramento esistenziale. Un suono privo di orpelli ed essenziali accordi rimbombanti nel vuoto rendono “Unknown Pleasures” un sismogramma dei terremoti interiori di Curtis, e in questo senso la copertina non è per nulla casuale. La fiamma del punk si spegne progressivamente in dieci brani simili a labirinti mortali, spesso introdotti da rumori di sottofondo che non promettono nulla di buono. In questo caso non funziona il giochetto di citare questa e quella canzone; ognuna è imprescindibile, ognuna esprime qualcosa d’irrinunciabile. Limitare il ruolo di “Unknown Pleasures” a precursore di dark wave, gothic rock e affini sarebbe miope e limitante: qua si parla, semplicemente, di uno dei grandi capolavori del Novecento.
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