Nel 1975 Keith Jarrett è ormai conosciuto come uno dei più grandi pianisti jazz dell’ultima generazione. Ha già suonato assieme a musicisti del calibro di Charlie Haden e Jack DeJohnette, oltre ad aver transitato nella band di Miles Davis. Tuttavia a lanciarlo definitivamente nell’universo degli immortali ci pensa “The Koln Concert”, un incredibile album per piano solo che riscuoterà il successo di un LP di disco music: ad oggi le compie vendute hanno raggiunto i tre milioni e mezzo di unità. Difficile spiegare le ragioni di tanta gloria: secondo il biografo di Jarrett, Ian Carr, “possiede un’intimità e un calore che sono abbastanza rari”. Per altri il merito va imputato a imprevedibili congiunzioni astrali: Keith non aveva dormito prima del concerto, e il piano sul quale si troverà costretto a improvvisare è mal accordato, così da obbligarlo ad utilizzare solo la parte centrale della tastiera; il risultato sarà un fluire di note mai udito, che toccherà le regioni del gospel e del blues per ridiscendere improvvisamente verso placidi orizzonti tardo romantici. E tutto con il solo ausilio di un vecchio Bosendrofer acustico. Niente elettricità, niente sovraincisioni, null’altro che un pianista e i suoi 88 tasti. In totale controtendenza rispetto al sound potentemente elettrificato del jazz rock dell’epoca. Forse è questa alterità il segreto di “The Koln Concert”, il cui estro influenzerà tutti i pianisti successivi e servirà a imporre la ECM quale etichetta più ‘cool’ nel panorama del jazz maggiormente raffinato; “il più bel suono dopo il silenzio”, come afferma il motto della casa discografica tedesca.
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